di Fabrizio Croce
Il 24 Aprile del 2013, dopo qualche mese di temporanea chiusura per riallestimento, a Perugia apriva un Centro di cultura contemporanea all’interno del Palazzo della Penna, storico edificio nobiliare eretto nel XVI Secolo su quel che restava di un anfiteatro romano e di tratti di mura medievali.
Il Palazzo, dopo essere stato acquisito dal Comune ed aver ospitato in anni pionieristici associazioni come A.R.C.I. ed Umbria Jazz, dapprima divenne sede dell’Assessorato alla cultura e poi nel 2002, in alcune sue parti, fu trasformato in un Museo Civico che da allora conserva alcune collezioni permanenti ed ospita eventi ed esposizioni temporanee.
Quello che accadde 10 anni fa, ed oggi pare un secolo, fu la concretizzazione di un’utopia, quella di far convergere all’interno di un luogo già votato alla cultura, ma per sua natura statico, un insieme di attività, prive di dimora e di connessione tra loro, con l’obiettivo di attivare un centro pulsante di idee, esperienze ed iniziative, costruire uno spazio di confronto e formazione, sviluppare un possibile incubatore per la crescita culturale della città.
La Perugia di inizio millennio era già, va ricordato, la sede di grandi istituzioni culturali (due università, un conservatorio ed una accademia di belle arti, tre fondazioni di partecipazione pubblica), un baluardo simbolico della pace e del cosmopolitismo, la capitale italiana conclamata del Jazz e quella in embrione del giornalismo, la base operativa di uno dei più antichi e longevi Festival di musica “sacra” e di una delle più accreditate stagioni musicali della “canzone e della musica d’autore” (opera del compianto Sergio Piazzoli).
Sotto il profilo culturale, insomma, la città si era mostrata luogo fertile e vitale, a dispetto della orografia poco agevole, di comunicazioni insufficienti col resto del paese, di un isolamento politico cronico e del ruolo marginale del suo contesto territoriale rispetto alle direttrici del turismo di massa, che nel tempo solo un “cuore verde così” e le origini anagrafiche di alcuni dei Santi più popolari d’Italia hanno potuto compensare.
Perugia aveva un capitale culturale prezioso ed invidiabile ed in quegli anni potè anche legittimamente aspirare a candidarsi a Capitale europea della cultura, perché già di fatto lo era.
Dunque il progetto di edificare simbolicamente un Centro Culturale, che sapesse attrarre a sé e far da scudo, chioccia e dinamico “calcinculo” ad ogni realtà del presente meritevole di attenzione e cura, non nasceva isolato, ma si inseriva in una visione illuminata che poneva avanti a tutto l’equilibrio tra conservazione e progresso, tra salvaguardia delle radici ed innesto di piante giovani, tra retrospettiva e avanguardia.
Il Palazzo rinnovato che tornava ad aprirsi ai perugini era ampio, accogliente e generoso di suggestioni.
Al piano terra l’invito simbolico ad entrare veniva dalle sculture “elleniche” di Brajo Fuso, che dal cortile interno sembrano vigilare sull’edificio, dalle due cravatte su specchio, dinanzi alle quali ognuno può identificarsi “con emozione altissima” nel ricordo del compianto Paolo Vinti, dal Bioo, “risto-bar gourmet” ideato ed arredato per sdrammatizzare l’austera solennità del museo, dal sontuoso Salone di Apollo, dove un gioco di specchi rende magica ogni cosa, e dalle sale affrescate, ricche di rimandi alla mitologia ed al gusto neo-classici.
Nei sotterranei si era attratti dalle visionarie lavagne di Beuys, dalla raccolta di Gerardo Dottori, dalla Collezione Martinelli, dalle vestigia di un teatro all’aperto eretto dai romani (un segno profetico ?), dalla scala elicoidale progettata dall’architetto Minissi, che pare avvitarsi attorno ad un originale parallelepipedo arboreo appositamente creato “on site” dall’artista Franco Passalacqua.
Ai piani alti, infine, ci si immergeva in ambienti decorati con gusto scenografico di dediche ai paesaggi umbri, impreziositi da un antico focolare domestico e dettagli nobili, parte di un percorso espositivo perfettamente distribuito lungo il perimetro del palazzo.
In quegli indimenticabili 18 mesi di vita il Centro organizzò mostre allestite con intelligenza ed originalità, senza squilli di trombe e grandi firme; ospitò workshop, convegni e conferenze di carattere storico, artistico o letterario; fu sede di Festival (l’esordio promettente di Encuentro, due edizioni di Young Jazz @ Umbria Jazz ed una ciascuno di Umbria Libri, Social Photo Fest ed Immaginario); fu, più di tutto e animando a rotazione il cortile, i sotterranei o le sale, una ineguagliabile fucina di eventi auto-prodotti in forma di cene o thè a tema letterario, ambientazioni video-musicali, incontri con autori, artisti o protagonisti dell’eno-gastronomia, “milongas” di tango, guide all’ascolto della musica, performances di danza, reading di poesia, azioni e visite teatralizzate, proiezioni sonorizzate e molto altro.
Ed oltre a ciò il Palazzo divenne sede permanente di alcune esperienze di condivisione e socialità, oltre che di valenza culturale tangibile, che semplicemente, ma efficacemente, riproducevano modelli importati (e perché no?):
il Circolo dei lettori, ad esempio, ispirato a quello già operante con successo a Torino, era uno strumento straordinario, spontaneo e contagioso di stimolo alla lettura e di collante a base culturale, con centinaia di soci che a scansione periodica si incontravano a parlare delle proprie passioni letterarie, magari con l’accompagnamento di un buon tè e biscottini, e solo saltuariamente in presenza dell’autore. Pura passione per la lettura ed il racconto.
L’ Archivio della memoria condivisa era una infrastruttura culturale permanente, pensata con la funzione di raccogliere, catalogare, digitalizzare e valorizzare il patrimonio documentario materiale (fotografie, video e filmati, documenti, interviste) riguardante la memoria storica perugina e fondata sull’apporto attivo e costante dei cittadini, cui si chiedeva l’utilizzo dei “cimeli” per soli fini di divulgazione culturale.
Tank, infine, era un contenitore di fotografia partecipata con attività di formazione, valorizzazione e promozione della cultura fotografica aperte a tutti i cittadini, professionisti, appassionati o semplici curiosi.
Nel suo primo intenso anno di vita il Centro rimase chiuso solo per una quarantina di giorni (i Lunedì e nemmeno tutti) e consentì al Palazzo di accrescere il numero dei suoi visitatori ufficiali dai circa 3000 mediamente registrati fino al 2013 al numero vertiginoso di circa 33.000 e, soprattutto, di essere scoperto ed apprezzato da tanti perugini che, in larga parte, ne ignoravano l’esistenza.
Fu un’operazione di architettura politica senza precedenti, se si parte dal presupposto che i tagli alla cultura imposti dai bilanci pubblici già allora non lasciavano agli amministratori grandi margini di movimento, e come tale virtuosa e da additare a modello di metodologia, sana creatività e partecipazione, considerando la quantità e la varietà di menti che contribuirono al suo innegabile successo, a cominciare da un Assessore (Andrea Cernicchi) che la varò.
Qualunque politico illuminato, chiamato a cimentarsi nel nuovo ruolo amministrativo, avrebbe come minimo preso un po’ del suo tempo per osservare un “fenomeno socio-antropologico” di tale portata e di studiare come governare al meglio e per sua utilità un simile bacino di consenso, peraltro ereditato a costo zero.
A Perugia, invece, nell’Estate del 2014 si materializzò una azione di “pulizia etnica”, legittimata dal voto popolare, ma assolutamente deleteria per le future dinamiche cittadine, perché operò senza lasciare prigionieri e rimuovendo ogni traccia di quello e di altri progetti (come lo stadio di S.Giuliana ripensato in “arena” per spettacoli o l’ex-ospedale Fatebenefratelli ridisegnato come luogo di residenze ed istallazioni artistiche), ma anche senza un piano a lungo termine in grado di rimpiazzare un patrimonio di esperienze promettenti o di provata efficacia.
L’esperienza del Centro culturale si chiuse non certo per il suo esaurimento naturale e la scelta pregiudiziale di operare un ricambio nel volgere di pochi mesi riportò il Palazzo ai livelli di presenze che ne avevano preceduto il lancio, disperdendo tra i mille rivoli della pubblica amministrazione o nell’oblio del pre-pensionamento competenze e professionalità che avevano contribuito al suo successo e bruciando, come Roma al tempo di Nerone, un investimento materiale importante che era stato fatto “in loco” dall’amministrazione e dal soggetto gestore.
A distanza di 10 anni e ad un anno esatto dal voto il panorama è oltremodo desolante e privo di prospettiva, con il Palazzo un tempo simbolo della cultura cittadina che langue immalinconito e sempre meno vissuto nella sua collocazione semi-clandestina, nascosta ai più, e gli eterni progetti di recupero di spazi culturali in grave ritardo (entro il 2023 entrerà a regime, e non senza difficoltà congenite, il solo Auditorium di San Francesco al Prato).
E se poi si estende lo sguardo a tutta la città la sensazione è che, dal 2014 in qua, nei “nuovi progettisti” abbia prevalso la presunzione di calare dall’alto modelli accademici da “Politecnico d’accatto”, astratti dai contesti di riferimento e funzionali solo alla propaganda (vedi i co-working Officine Fratti e Binario 5, il nuovo Mercato Coperto di cui rimangono i proclami mediatici e due Fasci Littori di cui la città avrebbe fatto volentieri a meno, il Family Hub di Madonna alta ed altre meraviglie), spesso naufragati prima ancora di salpare.
Nella Perugia 5.0, di cui si è fregiata a lungo la nuova classe politica cittadina, si sono testardamente inseguite velleitarie forme di socializzazione vestite a festa, ma prive di una base culturale e identitaria riconoscibili e condivise dalla maggior parte dei cittadini (come Perugia 1416) o improbabili auto-candidature (Capitale europea del verde);
nelle linee programmatiche di un mandato politico che fu ottenuto a furor di popolo, e proprio per ciò era avvolto da rosee aspettative, ci si è riempiti la bocca di concetti astrusi che ci avrebbero condotto verso strabilianti traguardi:
“città intelligente”, “open source”, “best case”, “smart”, polo attrattore di “start-up”, “venture capital”, “spin-off” universitari e “stakholders” dell’innovazione, sede di stimolanti “angel forum” e “green communities” , base di una piattaforma “blockchain” e di progetti di “welfare generativo”.
Da S.Orfeto a Fontignano, lungo circa 45 chilometri di strade dissestate, periferie illanguidite, “vuoti a perdere” a vista d’occhio, vestigia sgretolate di una città decentralizzata nei servizi e nelle funzioni, aggredita in lungo e in largo da automobili sempre più simili a processionarie impazzite, con i centri commerciali ad usurpare la funzione di luogo di aggregazione … i cittadini avrebbero forse meritato più sostanza e meno “concept”.
Tutto ciò è avvenuto con un dispendio di risorse pubbliche ben oltre il limite di guardia, a scapito del minimo sindacale di cura della città, dei suoi monumenti, delle sue strade e delle sue connessioni, del verde pubblico, a costo di un disagio materiale e morale per i perugini e, infine, rendendo la città tristemente priva di uno più centri di … cultura permanente: a Palazzo della Penna come a Monteluce, a Fontivegge come a San Sisto o ai “Ponti”.
Anzi, avremmo proprio bisogno, parafrasando il maestro Battiato, di un “centro di cultura permanente che non ci faccia perdere il contatto con le cose, con la gente … over and over again”.