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Gli umbri non volevano sottostare alla leva obbligatoria introdotta daIlo stato unitario: per questo in tanti attraversavano clandestinamente il confine con lo Stato Pontificio. Un’associazione per delinquere procurava per 80 scudi Infermità fasulle

di Marcello Marcellini

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina si è cominciato anche in Italia parlare della necessità di reintrodurre la leva militare obbligatoria che, com’è noto, è stata sospesa nel 2005 con l’entrata in vigore della legge 23 agosto 2004 n. 226 (legge Martino). Se ciò accadesse l’Italia andrebbe aggiungersi agli altri paesi europei, e cioè alla Grecia, alla Lituania, all’Austria, a Cipro, alla Lettonia, all’Estonia, alla Finlandia, alla Svezia e alla Danimarca, dove ancora è attualmente in vigore. Sarebbe comunque un servizio ridotto dato che le proposte di legge presentate recentemente da alcuni parlamentari di Forza Italia e della Lega prevedono per i ragazzi e le ragazze un servizio militare di soli sei mesi.
Ma gli Italiani di oggi, così impigriti e invecchiati, saranno disposti ad accettare di nuovo una naja, anche se dimezzata, per i loro figli?
Anni orsono quando erano i contadini ad andare sotto le armi la risposta a questa domanda sarebbe stata decisamente negativa.
In Umbria il servizio militare obbligatorio fu introdotto nel 1860 con la legge 20 marzo 1854 (legge La Marmora) dopo l’annessione della nostra regione al regno di Sardegna. Ma i contadini umbri che costituivano la stragrande maggioranza dei circa 500 mila residenti, e che, fino a quando erano restati sudditi dello Stato Pontificio, non erano mai stati assoggettati a tale obbligo, non la presero bene. La ferma, infatti, durava ben cinque anni di servizio attivo e, se non si aveva una grave infermità e un’altezza inferiore a m. 1,54, l’unico modo di evitarla era quello di ricorrere alla surrogazione o all’affrancazione che però costavano molto denaro. Ovviamente le famiglie contadine non erano in grado di ricorrere a questi espedienti e di conseguenza subivano un danno gravissimo nel vedersi sottrarre per così tanto tempo braccia indispensabili per il lavoro dei campi. Così si arrivò alla disobbedienza civile e migliaia di giovani con la complicità di parenti e amici, dopo essere stati estratti a sorte dalle liste di leva, invece di presentarsi alla visita per poi essere assegnati al reggimento, si rendevano irreperibili. Generalmente il metodo più praticato, e anche il più semplice, era quello di scappare via dall’Umbria e filarsela nello Stato Pontificio dopo aver attraversato clandestinamente il Tevere che segnava per gran parte il confine con la nostra regione.
Data la considerevole dimensione del fenomeno sorsero nell’Umbria meridionale singolari figure di favoreggiatori (guide per transitare su strade prive di controllo, falsificatori di passaporti, traghettatori ecc.).
A Terni si era persino costituita una specie di associazione a delinquere che dietro compenso di 80 scudi (40 subito e 40 a lavoro finito) procuravano infermità fasulle al coscritto che stava per passare la visita al Consiglio di Leva.
La caccia ai renitenti era condotta generalmente dai Carabinieri Reali, dalla Guardia Nazionale e dall’esercito. Al generale Filippo Brignone, comandante della Colonna militare umbra, venne affidato, come primo compito, quello di “impedire il passo verso la frontiera pontificia dei refrattari alla leva”.
La cattura dei renitenti non era facile, e non soltanto per l’irreperibilità dei ricercati ma anche perché spesso era ostacolata da parenti e da amici. A San Giustino, ad esempio, nel maggio 1851 in un agguato vennero uccisi quattro carabinieri che stavano trasferendo in carcere un renitente. In Avigliano nell’agosto 1861 quattro fratelli affrontarono con le armi un drappello della Guardia Nazionale costringendolo con la violenza a rilasciare due renitenti appena arrestati tra i quali vi era un loro fratello.
Quando la cattura avveniva ai malcapitati veniva inflitta una condanna da uno a due anni di carcere e poi, scontata la pena, se dichiarati abili erano costretti a subire una ferma di sette anni invece di cinque.
Anche coloro che dopo la cattura erano dichiarati esenti dal servizio per infermità venivano condannati come renitenti ad alcuni mesi di carcere per non essersi presentati dopo l’estrazione a sorte alla visita presso il Consiglio di Leva. Alcuni casi meritano di essere ricordati.
Felice Vitangeli, anni 22, di Monteleone di Spoleto era stato dichiarato renitente per non essersi presentato alla visita. Ma un motivo c’era: il giovane era affetto fin dalla nascita da una grave malformazione alle gambe che gli impediva di camminare. Nell’impossibilita di stare in piedi si era ritagliato un lavoro che poteva fare stando seduto: il “sediaro”. Tutti a Monteleone conoscevano la sua triste condizione, ma il suo nominativo, non si sa come, era finito nella lista di leva del Comune e estratto a sorte.
Il 25 ottobre 1861 venne arrestato dai carabinieri e rinchiuso nel carcere della Rocca. Il 2 dicembre, quando fu processato, il Tribunale vista la sua grave menomazione lo assolse.
Ad Angelo Piccialuti, anni 21, di Amelia, storpio ad una mano, non andò altrettanto bene. Quando aveva ricevuto l’ordine di presentarsi si era rivolto al medico condotto e al segretario comunale i quali gli avevano suggerito di restare a casa perché avrebbero pensato loro ad avvertire le autorità militari della sua infermità. Ma i due evidentemente se ne dimenticarono perché il 21 novembre 1861 il Piccialuti fu arrestato perché considerato renitente. Alla visita dinanzi al Consiglio di Leva fu riformato ma il Tribunale di Spoleto lo condannò ugualmente a mese di carcere per non essersi presentato.
Matteo Cascioli. Anni 21, di San Gemini era piccolo, orbo all’occhio destro e mentalmente ritardato. Probabilmente non sapeva neanche che in Umbria era cambiato regime. Fu arrestato i primi di aprile 1861 e portato dinanzi al Consiglio di Leva che lo riformò per “cretinismo” e per “mancanza di statura”, ma anche lui fu condannato a un mese di carcere per non essersi presentato.
Altri tempi…speriamo.