di Paolo Puppa
Oggi, a scuola, ogni tanto gli studenti picchiano un insegnante. Capita anche ai medici, aggrediti da pazienti, esasperati da un sistema sanitario disastrato. A scuola, lo fanno pure i genitori degli alunni. Guai ad essere severi. Ti bucano le gomme dell’auto, se usi la macchina. I docenti hanno perso ogni residuo di carisma professionale. Un tempo era diverso. Mario Isnenghi (Autobiografia della scuola. Da De Sanctis a don Milani, Il Mulino, 368 pagine, 26 euro) prova a documentarci in tal senso. Il paese si confessa così in un grande itinerario collettivo per oltre un secolo e mezzo. Oggetto, le interne migrazioni degli insegnanti, dalla elementare all’università, dall’Italia appena unita sino al fascismo e al secondo dopoguerra. Ricostruisce la carriera di alcune grandi intellettuali, maîtres à penser. Basti pensare ai due citati nel titolo del volume, da Napoli, la città più popolata della penisola da dove fermenta il magistero dell’irpino Francesco De Sanctis, esule svizzero e poi primo ministro della Pubblica Istruzione, alla desolazione di Barbiana in cui viene confinato Lorenzo Milani. Di quest’ultimo, famiglia fiorentina e triestina alto borghese ebraica, ordinato prete nel 1947, Lettera a una professoressa uscito l’anno della sua morte nel 1967, leggendario pamphlet contro la scuola di classe. Lo recensisce esaltandolo Pasolini sul settimanale «Tempo» dell’8 luglio del 1973. I gesti didattici del poeta supplente a Casarsa negli anni ’40 mostrano qualche sorprendente analogia cogli sforzi radicaleggianti del prete di Barbiana.
Nella ricostruzione di Isnenghi che scarta Pasolini risulta davvero sorprendente l’accostamento di Don Milani a Padre Agostino Gemelli, colui che aveva esultato nel suo rigorismo intransigente dopo il positivismo giovanile nel 1824 al delitto Matteotti. Ma la polemica contro le professoresse che bocciano continua l’allergia secolare ai danni delle maestrine di marca conservatrice. Il libro equipara i faticosi sbalzi geografici del docente attraverso lo stivale a un prolungato servizio di leva. Incessanti nomadismi generatori di scrittura, tra epistolari e diari di bordo. Ecco Pascoli passato da Matera a Massa e a Livorno, prima di approdare all’Ateneo bolognese, nelle vesti di poeta vate dietro il prototipo carducciano. O il grecista romagnolo Manara Valgimigli da Messina a Bosa sarda e al prestigioso liceo D’Azeglio torinese dove mette radici Augusto Monti. Nel frattempo si mettono a fuoco le lobbies di casta, tra tutte quella di Carducci, e poi di Giovanni Gentile, in grado di far nominare allievi e adepti, in una rete di cooptazioni, oggi diremmo baronie, grazie all’esercizio inesausto della raccomandazione. Nondimeno, tanti i mutamenti ideologici, con date che discriminano, come 1931, giuramento universitario che richiede sudditanza all’aristocrazia della ricerca, non solo ai mediatori del sapere, 1938 legge razziale, (con cui si cacciano 40 mila nemici, assimilati da una vita e ora traumaticamente scoperti diversi) e 1943, caduta della dittatura. Incluso lo spettacolo di camicie nere indossate in fretta e dismesse con altrettanta rapidità. Da qui, le periodiche epurazioni che svuotano classi e rovinano profili professionali, nel passaggio da illuminismo e ventata napoleonica, Restaurazione a Santa Alleanza, conventi trasformati in scuole, e quindi dall’Italia demo-liberale a quella fascista e poi a quella antifascista o post-fascista presto riassorbita dal moderatismo guelfo, la quota più alta del Dna nazionale. Così Guido Negri, il ‘capitano santo’ nato ad Este nel 1888, che sublima in castità e apostolato per morire in guerra nel 1916 e mezzo secolo dopo il padovano Antonio Negri operaista, anche lui disceso dalle parrocchie venete, assetato di assoluto. De Sanctis espelle dall’Università partenopea 34 borbonici o disadatti a insegnare, nel sogno di laicizzare il paese togliendo collegi ai frati e educandati alle suore. All’opposto, la rete capillare dell’invasione ecclesiastica, basata su catechismi e codici, invano assorbita dai rituali fascisti che non per nulla preferiranno il compromesso del Concordato nel 1929. Tra i docenti accademici non giura fedeltà al Re e al Duce appena una dozzina nel 1931 a fronte dei mille e duecento ordinari consenzienti. Lo storico si interroga sui funzionari costretti a recitare quali militanti di una presunta ‘ora storica’, e questo nella contrapposizione tra i due termini cari all’autore. E su Piazza Venezia che osanna il Duce: mera finzione o non lo è stata piuttosto la successiva palinodia? Viene in mente allora Il vecchio con gli stivali, racconto di Brancati del 1946, dove Aldo Piscitello, fascista per forza, si divide tra il suo Io pubblico, esposto nelle adunate del Sabato, e quello privato in bagno, intento a pisciare contro le insegne prima esibite in strada.
Spuntano fuori personaggi di carta e di carne, figure amate dallo storico, Garibaldi e Nievo in particolare. Appare pure Benedetto Croce, tollerato ambiguamente dal regime nonostante la sua resilienza (ma col comunista Gramsci il fascismo si comporta più brutalmente) che trova una sponda attivistica nell’altro console dell’idealismo, il siciliano Giovanni Gentile, fondatore della riforma scolastica, in cui il fascismo viene imposto quale autentica religione di stato. Lo uccidono i partigiani nel 1944. Luigi Squarzina si ricollega a questa vicenda di sangue in Tre quarti di luna, varata nel 1953, trattando i cattivi maestri sotto il fascismo. Il copione si contestualizza nel 27 ottobre del ’22, in un liceo della provincia romagnola. Il preside ossessionato dalla riforma gentiliana, creato sull’aitante fisicità di Vittorio Gassman, risulta una complessa figura di figlio dell’idealismo, poi ucciso dal seminarista spretato di Ronconi, a vendicare il compagno suicida.
Nel libro si illustrano episodi nobili, gesti sacrificali. Si veda il suicidio nell’acqua del mulino nel 1886 della povera Italia Donati, maestrina toscana, concupita dal sindaco del paesino in cui insegna e da cui dipende (a quel tempo l’amministrazione comunale si faceva carico della scuola elementare). Costei nel suo gesto estremo pretende che da morta un’autopsia che dimostri la sua innocenza le renda giustizia. Il fantasma della ragazza rivive a suo modo nell’astuto e melodrammatico La maestrina di Dario Niccodemi, affidata nel 1917 alle grazie guittesche di Dina Galli, o nella ricostruzione apologetica nel 2003 della pedagogista Elena Gianini Belotti che ne fa una sorta di “Lucia Mondella acculturata”. Ma il turgore con cui si eleva il ruolo del maestro, non maestrino, e delle sue varianti di genere trova già nella Scuola Normale Femminile di Matilde Serao nel 1885 un contraltare di disincanto e di miseria, tra ispettrici grottesche e penosi canti corali imposti ad inizio della lezione mattutina. Del resto, anche Pirandello, qui assente, docente all’Istituto superiore magistrale romano descrive la proletarizzazione della piccola borghesia insegnante, come ne Il professor Terremoto del 1910. E sulla scena ne ha dipinto i tratti dispettosi e nevrotici nel suo Pensaci, Giacomino!, inaugurato nel 1916. Nella college story, il vecchio docente in scienze naturali, nel suo odio per lo Stato, sposa la giovanissima figlia del portiere, incinta di Giacomino, in un bizzarro ménage a tre che ne consegue, pur di vendicarsi strappando una pensione, pertanto prolungata.
Ma l’idea mobilitante del libro risiede nella “trascinante campagna di acculturazione delle plebi rurali”. Contadini e anche donne, però. A sradicare antichi stereotipi sulla fissazione della donna quale angelo del focolare. A tale proposito, Isnenghi parla di “cantieri cattolici” a segnarne i passaggi controversi e delicati. Occorrono gradualismi e snervanti oscillazioni verso lo spettro dell’emancipazione femminile, come le incertezze del narratore vicentino Antonio Fogazzaro, perseguitato dalla Chiesa per il suo modernismo. Titubanze che gli tolgono però il Nobel nel 1907, finito a Kipling. Splendido il capitolo dedicato all’educazione virilista da caserma autoritaria all’infante Vittorio Emanuele III nelle mani circospette del professor Luigi Morandi italianista. Subito dopo, in dialettico contrasto, il figlio della maestra e del fabbro, Benito Mussolini, sbandato, copia del Franti di Cuore, frequentante il carcere e bordelli, addestrato in collegio salesiano a Faenza e poi nel collegio laico di Forlimpopoli diretto dal fratello di Carducci. Questo, prima della ventennale beatificazione. Escono altresì figure complesse, come De Amicis che dopo i bozzetti de La vita militare, i languori di Cuore o l’epopea del coevo Romanzo di un maestro non teme di schierarsi a favore del socialista Filippo Turati sotto processo. Di contro si manifestano orrori, servilismi e hybris dei vincitori. Norberto Bobbio che scrive una lettera umiliante al Duce per non finire in manette, una volta scoperte le sue connivenze con Giustizia e libertà, rivendicando parenti generali. Ma non tutti possono essere eroi come Leone Ginzburg. Ora lo storico, se mantiene un aplomb verghiano, a volte esplode con aspre interiezioni, specie nel discorso sul ventennio, di fronte alle spedizioni punitive nelle aule contro i professori neutrali o socialisti, o alla ferocia nel 1938 della legge razziale. Quando il giovane fisico Bruno Rossi, genero di Lombroso, esce dall’Università di Padova, salutato e pianto solo dall’umile bidello, esplode in “Brividi. Vergogna”. Il fatto è che l’occupazione militare delle coscienze avviene proprio nella scuola, dove Isnenghi ripresenta le inaugurazioni solenni, le prolusioni dei presidi, le ritualità celebrate, le antologie preposte allo scopo di selezionare il passato ad uso del presente, il libro unico per la scuola elementare. E insieme si sedimentano miti fondanti, tra balilla e figli della lupa, dall’entrata in guerra all’affermazione di un illegalismo divenuto sacralità del nuovo ordine nazionale. Eccolo ancora definire “oscena” la sparizione del logo Treves dalle pubblicazioni del grande editore triestino, eccolo ergersi indignato verso Farinacci, “energumeno”, allorché lo vede inaugurare nella sua Cremona un Istituto magistrale parlando della donna. Cacciati i professori ebrei, faticano a rientrare dopo la liberazione, mentre quelli che li hanno cacciati possono restare, per amnistie e condoni/perdoni. Insomma, non si sono fatti i conti col ventennio, visto quale parentesi marziana, e non invece autobiografia del Paese, dunque. Omissione che spiega forse il momento politico che stiamo vivendo oggi.
In Italia ci sono 78 % di analfabeti nel 1861, si lamentava De Sanctis nel suo primo discorso alla Camera, ridotti nel 1991 al 2,1%. Eppure, nell’ultima delle 325 pagine, l’autore si sbarazza bruscamente del lavoro. Appare rassegnato. Si scaglia contro l’anglo-crazia che incombe nei corsi accademici, così come contro l’aziendalizzazione delle scelte ministeriali, per cui la scuola è considerata mera voce economica, non più strumento di educazione. E l’ultimo testo citato suona da triste congedo, le puntate uscite nel 1987 sul «Manifesto» a firma del napoletano Domenico Starnone. Ex cattedra decreta con triste arguzia come insegnare non sia più una missione, ma nemmeno un mestiere.