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di Gabriella Mecucci

Quando dietro una decisione di un magistrato c’è un cambiamento d’epoca. E’ il caso della scelta della gip di Perugia sul suicidio di Andrea Prospero. La magistrata, Simona Di Maria ha detto no al patteggiamento che riduceva la pena a due anni e mezzo, da scontare ai servizi sociali, per il diciottenne Emiliano Volpe che istigò il ventenne a uccidersi. La richiesta non proveniva solo dalla Difesa dell’imputato, ma era condivisa anche dalla Procura della Repubblica. La giudice si è pronunciata contro perché ha ritenuto la pena “non congrua”, e cioè troppo mite rispetto alla gravità del crimine. In effetti la legge prevede da cinque a dodici anni. Le differenti valutazioni all’interno della Magistratura perugina è una prova ulteriore della complessità e drammaticità del caso. Adesso, in novembre spetterà al Tribunale decidere.

L’imputato ha indotto ad uccidersi un giovane di poco più grande di lui e ha assistito in rete alla sua morte senza fare nulla per evitarla. Nemmeno un attimo di ripensamento, ma una gelida attesa dell’esito finale. L’intera vicenda si è consumata davanti al computer: una tragedia della contemporaneità, una modalità nuova, inimmaginabile solo qualche anno fa. Sull’argomento non esiste certo una consolidata giurisprudenza a cui richiamarsi. Lo svolgimento dei fatti rende particolarmente agghiacciante il reato di cui si è reso colpevole Emiliano Volpe. Il diciottenne ha chiesto scusa e, riferendosi al suicida, l’ha chiamato “amico”. Una scena questa, svoltasi davanti al gip, raggelante. L’intera vicenda solleva almeno tre interrogativi. 

Una prima domanda: la legge attuale è adeguata alle novità che la rete sta introducendo nella vita, nel dolore, nel suicidio di una persona? Oppure la rivoluzione in atto impone una riflessione profonda e forse un’integrazione e/o un cambiamento anche sul terreno del diritto?

Il secondo interrogativo riguarda un nuovo modo di comunicare, ormai dominante nel mondo giovanile. La morte di Andrea Prospero è stata mediata da uno schermo come se fosse una fiction. La più terribile delle realtà si è così trasformata in virtualità. Nel dialogo in rete tutto è verbale e nulla è corporeo. La fisicità scompare. Davanti c’è solo un’immagine, non una persona in carne ossa. E l’abitudine a questa forma di rapporto trasforma persino l’irreversibilità della morte in qualcosa di reversibile, di non definitivo. Il cambiamento è profondo, radicale: incide nel modo di sentire e di pensare.

Il terzo interrogativo è di natura esistenziale e etica. Cosa sta avvenendo nella vita dei giovani? Quale male oscuro può portare a simili comportamenti? Andrea ha trovato in rete chi gli ha consigliato, come unica via d’uscita dal suo dolore, la morte, ma perché non ha incontrato nella vita reale qualcuno che comprendesse la sua sofferenza e che, invece di istigarlo al suicidio, lo aiutasse a vivere? Da cosa nasce questa abissale solitudine?

Prospero ha progettato il suo suicidio, ha trovato e acquistato i farmaci letali e poi lo ha fatto, lo ha – se è consentito dirlo – messo in scena. E’ inquietante. E non ci sono aggettivi per definire il comportamento di Emiliano. La Magistratura si occupa ovviamente dei profili di reato, ma dietro al suo gesto c’è molto di più. C’è un diciottenne che non vede altra via d’uscita se non la morte per quello che definisce “un amico”, mai incontrato nella vita reale – al bar o in un’aula universitaria – e con il quale aveva parlato solo attraverso uno schermo. Questo è orribile e insieme straziante.