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di Lucio Caporizzi

Pochi mesi fa da parte del Dipartimento per le Politiche di coesione venne emanato il Piano strategico nazionale per le Aree interne, relativamente al periodo di programmazione dei fondi europei per la coesione 2021-2027, contenente indirizzi per una politica pubblica diretta al miglioramento della qualità dei servizi ai cittadini e delle opportunità economiche nei territori interni a rischio di marginalizzazione 

L’uscita di tale documento ebbe un certo risalto anche per via di una sorta di classificazione delle 128 aree interne a vario titolo delimitate nel Paese, classificazione che raggruppava tali aree in 4 categorie, a seconda del grado di “vitalità” delle stesse, con la quarta categoria – la più debole – dal triste titolo “Povertà dietro l’angolo”. L’unica area interna di tale categoria non appartenente al Mezzogiorno è la Valnerina. 

Inoltre, sempre nel Piano, si individuano quattro tipologie di obiettivi perseguibili, con la quarta tipologia intitolata “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”, che fa tanto pensare ad una situazione irrecuperabile. 

Anche se il collegamento non viene esplicitato, tutto fa pensare che il ritrovarsi nel Gruppo 4 (dove abbiamo anche la Valnerina) significhi essere condannati a quel “…percorso di cronicizzato declino e invecchiamento…” preconizzato nella Tipologia 4.

Insomma, una prospettiva ben poco allegra per la Valnerina.

Senonché esce recentemente il Rapporto Isnart 2025 sulle aree interne (Isnart è una società del sistema delle Camere di Commercio), dove si parla della Valnerina come di un laboratorio di rinascita dove, pur registrandosi un progressivo calo dei residenti, si assiste ad una tenuta imprenditoriale e turistica, che la pone tra i casi virtuosi del Centro Italia.

Insomma, area in stato comatoso – come sembra sostenere il Piano – oppure zona con prospettive promettenti, come dice Isnart? Pare via sia una certa confusione!

Ma da dove nasce l’intervento nelle aree interne? Quali obiettivi intende perseguire?

Con il prepotente riemergere – ormai da alcuni decenni – delle città quali poli di sviluppo ed attrazione, i divari di reddito tra i territori assumono una dimensione spesso infraregionale, divari che tendono ad accentuarsi per effetto dell’agire delle economie di agglomerazione ed urbanizzazione, che potremmo – in modo estremamente semplificato – esprimere con la frase che “nulla ha più successo del successo”.

Nella stessa regione abbiamo quindi poli di sviluppo particolarmente vivaci ed aree, neanche tanto distanti, che restano indietro.

Tali aree, chiamate appunto Aree interne, si caratterizzano per un processo di progressiva perdita di attività economiche, servizi e popolazione in un circolo vizioso dove tali fenomeni si alimentano l’uno con l’altro. Se le opportunità di lavoro sono deboli, la gente se ne va altrove, se la gente va via, man mano chiudono servizi pubblici come le scuole, i presidi sanitari ed i servizi di trasporto pubblico locale, il venir meno dei servizi spinge ancor più la gente ad andarsene, in particolare i giovani, il conseguente processo di degiovanimento riduce i tassi di fecondità e via di seguito. 

Insomma, come si è detto, un circolo vizioso con feed back positivi (in realtà, negativi…) che accentuano ancor più i fenomeni di spopolamento e perdite di attività. 

La Strategia per le Aree interne si pone, in buona sostanza, l’obiettivo di spezzare questo circolo vizioso, intervenendo sia sul versante dello stimolo e promozione delle attività produttive, sia sull’adeguamento della dotazione di servizi, nella consapevolezza che occorre intervenire su ambedue i versanti se si vogliono arrestare i processi di spopolamento e provare a convincere le persone ad insediarsi in queste aree.

Ovviamente non è un compito facile ed i risultati non sono certo garantiti, come è normale che sia quando si intende sollecitare, con interventi pubblici per loro natura limitati, processi di sviluppo che sono spinti e determinati da una molteplicità di fattori e che richiedono il verificarsi di condizioni di vario genere. Non è facile, anche se, ascoltando i politici, pare che lo sviluppo sia sempre in atto…del resto, il Governo nazionale, per esempio, non perde occasione per proclamare che l’Italia ha ripreso a correre, anche se, per il 2025, abbiamo finora un Pil acquisito di appena lo 0,5% ed un valore per il terzo trimestre pari a zero. Se con questi dati l’Italia ha “ripreso a correre”, allora la Spagna, che si avvia a chiudere l’anno con una crescita di quasi il 3%, ha battuto il record dei 100 metri!

Certamente, per poter pensare di ottenere risultati, occorrono interventi cosiddetti taylor made, cioè disegnati secondo le specificità di ciascun territorio, cosa che non sempre avviene, anzi, se lo stesso Piano nazionale lamenta una eccessiva uniformità delle tipologie di interventi predisposti ed attuati nelle varie aree.

Occorre anche un adeguato ammontare di risorse, con conseguenti scelte di concentrazione delle stesse, scelte notoriamente poco gradite al policy maker, che, sovente, preferisce “dare un po’ per ciascuno”: non si incide granchè sui territori, ma, almeno, si scontentano il minor numero possibile di soggetti. 

In Umbria alle 3 Aree interne individuate nel precedente periodo di programmazione 2014-2020, se ne sono aggiunte altre 2. Se a queste 5 Aree interne aggiungiamo le 5 città dell’Agenda urbana, abbiamo che gran parte del territorio e della popolazione regionale sono interessati da un intervento a dimensione territoriale, con conseguente, evidente “spalmatura” delle risorse, che è esattamente il contrario della concentrazione.

5 Aree interne in Umbria paiono francamente troppe ed è facile prevedere che, date le risorse disponibili, non si potrà certo incidere più di tanto, su di esse.

Mi viene in mente, a tale proposito, la battuta di un collega della Regione Toscana, mentre si lavorava alla definizione della Strategia Nazionale per le Aree interne : “Eh, ma che vuoi, in fondo l’Umbria tutta intera è giusto un’area interna della Toscana!”…sta a vedere che aveva ragione!!