di Lucio Caporizzi
Periodicamente ci si interroga sullo stato di salute dell’economia regionale, sulle sue tendenze, sui cambiamenti in atto e prevedibili.
Coloro che sono più sensibili al breve termine ed all’attualità si rifanno prevalentemente ai dati semestrali o addirittura trimestrali, tipo quelli sul mercato del lavoro. Chi pone più attenzione agli andamenti strutturali si dedica invece agli andamenti di medio periodo (per il lungo, vale la celebre frase del grande Keynes…) di grandezze come il Pil e la produttività, così da ricavarne valutazioni sulla direzione verso cui si va evolvendo – o involvendo – il sistema regionale.
Tra i secondi, per molti anni è serpeggiato un timore, quasi in incubo, riassunto nello spauracchio dello “scivolamento verso il Mezzogiorno”. Si scrutavano ed analizzavano le grandezze economiche ed i relativi andamenti, facendo i debiti scongiuri quando questi indicavano tristemente il regredire del valore chiave del Pil pro-capite, che si allontanava, lentamente ma inesorabilmente, dal corrispondente dato medio nazionale il quale, a sua, volta, si discostava sempre più – verso il basso – dal valore europeo.
Quello che era parso una sorta di evento ferale, si è infine verificato, recentemente certificato in termini formali dall’inserimento dell’Umbria nella Zona economica speciale del Mezzogiorno (Zes), ma non è che abbia poi suscitato tanto sconforto, anzi! Quasi tutti hanno subito guardato al bicchiere mezzo pieno, nel senso di porre attenzione alle facilitazioni amministrative e, soprattutto, alle possibili risorse che tale inserimento può comportare, in termini di credito di imposta a sostegno degli investimenti delle imprese. In effetti il rientrare tra i territori in “ritardo di sviluppo” (per la precisione l’Umbria è classificata come regione “in transizione”) consente di accedere alle provvidenze previste per tali aree, seppur secondo una perimetrazione sotto il vincolo di non superare la popolazione assegnata, che ora come ora escluderebbe la maggior parte dei comuni umbri. Le risorse ci sono, si diceva, ma non sono così tanto abbondanti se è vero che nella manovra di bilancio 2026 del Governo per la Zes sono previsti 4 miliardi per i prossimi 3 anni (quindi meno di un miliardo e mezzo all’anno, di media) per un’area che consta di 10 regioni, alcune delle quali piuttosto grandi e popolose, come la Sicilia, la Campania e la Puglia.
Lasciando da parte lo “scivolamento”, come si trova la nostra regione? Va detto in primis che sono fuori luogo sia gli scenari catastrofici che quelli ottimistici.
Tra le varie analisi che vengono elaborate, credo che quella di Banca d’Italia sia da preferire come autorevolezza, serietà e esaustività dell’analisi. Restringendo il campo ai singoli fenomeni, sicuramente degni di attenzione sono anche i Focus di Aur, l’agenzia di ricerche economiche e sociali della Regione.
Banca d’Italia ha, come di consueto, recentemente rilasciato l’aggiornamento autunnale della più ampia survey che ogni anno presenta nel mese di giugno.
In sintesi, quali sono i punti salienti di tali analisi?
Di positivo abbiamo un’ulteriore crescita dell’occupazione, che porta il relativo tasso a salire al 68,4%, un punto e mezzo al di sopra del corrispondente valore del 2024 e fa scendere il tasso di disoccupazione al 5%. L’aumento dell’occupazione ha interessato soprattutto la componente femminile e del lavoro autonomo. In lieve aumento i consumi delle famiglie, ma in diminuzione, anche se di poco, il clima di fiducia dei consumatori.
Ancora in positivo abbiamo l’ottimo andamento del turismo, che prosegue il suo rimbalzo post Covid, con le presenze aumentate di ben il 10% nei primi nove mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, in particolare nella componente extralberghiera e per le provenienze dall’estero, giungendo quindi fino a 6,4 milioni di presenze, quasi 600.000 in più di quelle dei primi nove mesi del 2024.
Ma se l’occupazione aumenta e il turismo galoppa, allora coma mai siamo “scivolati” nel Mezzogiorno? Come mai l’Umbria ha fatto registrare negli ultimi anni una delle peggiori performance tra le regioni europee, passando, appunto, dalla categoria delle regioni più sviluppate a quella in transizione?
Intanto abbiamo la crisi dell’industria, con il relativo valore aggiunto che in 15 anni ha registrato una flessione di quasi il 33%, mentre a livello nazionale abbiamo un – 9,6 %.
Sempre nello stesso periodo la produttività, invece di aumentare, è calata di quasi il 7%, pur a fronte di un leggero aumento dell’intensità di capitale.
Si esprime, giustamente, grande soddisfazione per il favorevole andamento delle presenze turistiche, ma l’Inps ci informa che a livello nazionale la retribuzione media dei lavoratori nei servizi di alloggio e ristorazione (attività tipiche del settore turistico), con appena 11.233 euro annui presenta il dato di gran lunga più basso rispetto agli altri settori, mentre la manifattura, con oltre 32.000 euro annui, fa registrare un valore quasi triplo. Ancora più elevate le retribuzioni del Settore finanziario ed assicurativo, con oltre 56.000 euro annui.
Ma anche la manifattura esprime i compensi più elevati nel terziario collegato all’industria, non nella mera attività di line.
Quando la Nestlè acquisto la IBP (Buitoni Perugina), per esempio, furono trasferite a Milano quasi tutte le attività diverse dalla semplice manifattura, con il relativo personale addetto.
Le multinazionali che si sono insediate in Umbria, in genere acquistando siti produttivi preesistenti e non con investimenti greenfield (cioè nuovi siti produttivi), hanno raramente sviluppato le attività di terziario industriale, come la ricerca, la finanza, il design che sono quelle a maggior valore aggiunto.
Qualcosa quindi si spiega, di quella apparente contraddizione: aumentano gli occupati, ma cala la produttività, le retribuzioni sono basse, il loro basso livello è a sua volta esso stesso una causa del ristagno della produttività, in un circolo vizioso il cui esito, alla fine, è stato l’ingresso nella Zes Mezzogiorno.
Chi scrive non ha certo la presunzione di avere le risposte giuste, la ricetta per far ripartire lo sviluppo regionale, quello sviluppo che in realtà manca ma viene “messo” dappertutto, facendo venire in mente quel detto francese “la cultura ( lo sviluppo..) è come la marmellata, meno se ne ha e più la si spalma”.
Queste risposte andrebbero perseguite e trovate in un confronto – magari acceso, ma schietto – tra tutte le componenti della società regionale, le istituzioni, le forze sociali ed economiche, i movimenti politici.
Un confronto che eviti di seguire le solite strade e che abbia il coraggio e la maturità di guardare in faccia il declino dell’Umbria, di mettere in discussione le politiche e le strumentazioni fin qui seguite ed adoperate e ricercarne di nuove, ma nuove davvero, non il solito obsoleto armamentario riverniciato a nuovo.



