di D. Scoccia
Sulla parete di fronte alla scrivania, nello studio, mio padre aveva lasciato un pezzetto di carta con una citazione di Proust “i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto”
È quella di Steven Mills la voce narrante di questo lucido e avvolgente romanzo di Andrew J. Porter “La vita immaginata” edito da Feltrinelli, che si inserisce nel filone della grande narrativa americana (quella disincantata e malinconica di autori come John Cheever Richard Yates), e ci racconta il viaggio di un uomo in crisi che decide di ricucire i pezzi di un passato tanto idealizzato quanto misterioso, caratterizzato da una lunga e inspiegabile assenza.
Il viaggio che Steven compie è quindi un vero percorso on the road lungo la costa della California alla ricerca di ex colleghi, ex studenti, amici, familiari e conoscenti del padre, un insigne e affascinante professore universitario, scomparso inspiegabilmente 40 anni prima.
Il tempo non sempre rimargina le ferite, e nel momento in cui le verità e le sicurezze si frantumano, allora, proprio allora, il viaggio di Steven diventa anche una metafora della ricerca di chi si è attraverso la conoscenza di chi ci ha messi al mondo; è il modo attraverso il quale poter mettere sul piatto della bilancia ricordi di un ragazzino di undici anni e la realtà ricostruita attraverso gli incontri, i dialoghi, gli appunti, le lettere di chi l’ha vissuta.
Alla fine, c’è il riconoscimento e l’accettazione di quello che è stato il passato e di quello che è il presente, anche se l’uno e l’altro sono talvolta inafferrabili, contraddittori e incerti.
Un romanzo davvero bello (direi un “bildungsroman” a tutti gli effetti, romanzo cioè di formazione e trasformazione), decisamente e intensamente narrato sottovoce, ma bello da dirlo ad altissima.



