di Fabrizio Croce
Il provvedimento emesso dalle autorità di chiusura per un mese di un noto locale alle porte di Perugia per un fatto di cronaca (rissa tra molte persone che ha coinvolto anche l’ospite della serata ed alcuni giovanissimi) stimola alcune riflessioni ed una proposta finale.
Va, anzitutto, precisato che la vicenda ha destato un certo scalpore e non poca indignazione solo nell’opinione pubblica più generalista, convinta di trovarsi di fronte all’ennesimo fatto di cronaca generato da ed attorno al “mondo della notte”, spesso additato come ricettacolo di tutti i mali della società moderna.
In realtà il “fattaccio” era largamente annunciato e prevedibile nella sua dinamica esplosiva tra chi questo mondo lo conosce e lo analizza da tempo, in quanto il suddetto ospite fa parte di un gruppo di soggetti della scena underground milanese che proprio artisti non sono, operando spesso ai margini della legalità e usando la musica, o ciò che ne resta, come altoparlante delle proprie malefatte e del proprio stile di vita.
Per una curiosa coincidenza in questi giorni il Consiglio Comunale di Perugia sta dibattendo se rimuovere, o almeno attenuare, la rigida chiusura del Regolamento Comunale, risalente al lontano 2002, al rilascio di nuove autorizzazioni di pubblico spettacolo (essenzialmente quelle che hanno ad oggetto “sale da ballo o discoteche” ) all’interno del centro storico nei suoi confini più ampi, ovvero quelli definiti dall’ultimo Piano Urbano del Commercio.
Le due situazioni, in realtà, sono connesse in più punti perché muovono in qualche modo dalla stessa premessa: la società moderna non ha ancora metabolizzato, né saputo approcciare con consapevolezza il desiderio atavico dell’umanità di stare insieme in luoghi di socialità assecondando i tempi ed i modi della musica.
La musica è stata il collante fondamentale di ogni rivoluzione culturale degli ultimi 60 anni: inneggiò alla pace contro le guerre e si battè per i diritti civili ad ogni latitudine, diffuse come un virus la “febbre del sabato sera” e rivestì di chiodo nero, borchie e spille il vecchio assunto nichilistico che urlava al mondo “non c’è futuro”, scandì nuove istanze sociali a suon di rime codificando una poesia per il nuovo millennio e sdoganò la filosofia di un nuovo agire clandestino e restio ad ogni regola del conformismo.
Woodstock ed il Live Aid, la Disco music ed il Punk, il Rap ed il Rave, per quanto profondamente diversi nell’approccio musicale, sono tutti fenomeni prodotti da questa inarrestabile dinamica socio- antropologica.
Poi ci sono, come in ogni epoca ed in ogni rappresentazione dell’essere umano, delle degenerazioni figlie della propaganda e della strumentalizzazione, come nel caso di un fenomeno tutto contemporaneo che genera milioni di “follower” a un ceffo che si vanta di fare rapine, gestire racket, maneggiare droga e usare donne come un “giochino” e guai a chi osa guardarlo “storto”: ovvero l’ospite di cui sopra, l’attrazione di quella serata in discoteca, e non ci lamentiamo che quando costui va in giro a fare “proselitismo” di bassa lega (non parliamo di arte, per favore) scoppino dei casini.
Soprattutto, non ci accaniamo contro chi è vittima di questo involontario “gioco al massacro” ovvero il gestore che deve fare cassa per far fronte a costi quintuplicati o i ragazzini che non hanno gli anticorpi culturali necessari a distinguere la provocazione artistica dalla manipolazione.
Nel caso in questione loro (gestore e pubblico) hanno meno colpe delle multinazionali che predicano bene (in nome del “green” e di una sbandierata etica) e razzolano male, pubblicando le farneticazioni sonore (parlare di musica è criminale) di questo ciarlatano o agghindandolo di vestiti e accessori di lusso, che arricchiscono il suo conto in banca e plagiano una generazione totalmente priva di “difese immunitarie”.
Invece accade che un’autorità inflessibile, ma estremamente rigida, ritiene che colpire un locale e chi lo gestisce, anche quando non si ravvisi una sua responsabilità diretta, ma solo oggettiva, possa in qualche modo essere di esempio perché certi eventi non si ripetano.
Invece accade che le zone industriali e fuori controllo di una città di antica vivacità e multiculturalità come Perugia pullulino di locali in nome di un regolamento comunale datato venti anni che con fermezza esclude la possibilità che quel tipo di attività possa essere autorizzato nel centro storico e dintorni: “Vade retro …”. Mai una volta che nel dibattito e nel formarsi di un’opinione pubblica siano emerse valutazioni che possano in qualche modo spostare il paradigma rispetto ai modi dello stare insieme ed alla loro funzione.
Si valuta pregiudizialmente, e solo sotto il profilo della “pericolosità” sociale, un format peraltro superato dai tempi e dalle mode, quello del locale da ballo.
Si sappia che tra le giovani generazioni la “discoteca” non occupa sicuramente un ruolo prioritario o centrale, se non quando si tratta di andare ad un rito di massa per celebrare l’idolo di turno, ovvero un trapper (come quello che ha infiammato le cronache degli ultimi giorni), un rapper, un DJ o qualche rara band vecchio stampo (modello Maneskin) che ancora è in grado di scaldare i cuori.
Per il resto, in mancanza di stimoli, di modelli propositivi che partano già in età scolastica e li rendano finalmente protagonisti delle loro scelte e non succubi del “mercato del bestiame” … ebbene, per il resto basta la strada con le sue leggi e le sue dinamiche da far west.
Dunque, si esclude, vietandoli, che luoghi fisici, protetti, ospitali e “benedetti” dal visto delle autorità preposte, possano diventare gli incubatori di una generazione più consapevole, mentalmente aperta e di nuovo, vivaddio, libera di sprigionare la propria fantasia e creatività.
Ci si dimentica, inoltre, che una larga parte della popolazione (quella compresa tra i 30 e gli 80 anni) ha e potrebbe aver bisogno di questi luoghi fisici sia per un’attività che fin dalle origini dell’umanità ha avuto poteri taumaturgici, quale il ballo in qualunque sua forma o denominazione, ma anche per semplice bisogno di socialità, confronto, dibattito, svago.
E che queste attività potrebbero svolgersi, in modo sano e con la massima sicurezza discendente dalla quantità di prescrizioni cui questo tipo di locali devono sottostare, anche in orario antimeridiano o pomeridiano e nel cuore di una città anziché nelle sue protuberanze.
Anche il tanto demonizzato “ballo” per chi sa ancora apprezzarlo troverebbe una nuova declinazione se un locale aprisse alle 20.00 con possibilità di mangiare qualcosa, di scaldarsi con la musica e a casa a mezzanotte!
Se solo questi spazi fisici fossero reintrodotti ed accettati per quello che sono, anche con l’aiuto delle norme e senza pregiudizi fuori dal tempo, il contesto urbano che li ospiterà, quello ad alta densità, dei quartieri storici dentro ed attorno all’acropoli, ma anche della cosiddetta “città compatta” e della prima periferia, potrebbe solo trarne benefici in termini di “riconquista” del territorio e della socialità diffusa.
Questi locali, come i CVA o i leggendari Centri Sociali degli anni ‘90 (Leoncavallo, Isola, Forte prenestino) potrebbero acquisire quel ruolo polifunzionale (dal concerto alle assemblee, dal ballo per gli anziani alle lezioni di sostegno fino ai vituperati gruppi di autocoscienza) cui nessuna struttura pubblica è oggi in grado di assolvere e rendere la comunità circostante compartecipe di un processo di crescita culturale.
Oggi, invece, lasciamo che le zone industriali di notte cambino radicalmente volto, assumendo le sembianze di una Gotham City, senza super-eroi ma con tante creature che paiono loro malgrado degli zombies, costrette a migrare in auto (alimentando statisticamente il tragico bollettino degli “incidenti del sabato sera”) e poi a muoversi trafelate alla ricerca del loro piccolo ghetto, spesso private anche del minimo sindacale di tutela dell’incolumità (marciapiedi, illuminazione pubblica, ecc.).
E lasciamo i quartieri cittadini, dal centro alle periferie, ovunque si concentrino “non luoghi” di aggregazione al chiaro di luna sorti attorno a 2/3 piccoli esercizi di somministrazione che esistono solo grazie alla ingovernabile liberalizzazione del commercio, costretti a scontare, notte dopo notte, la pena della “movida perenne” senza una reale opportunità di “redenzione”.
Una pena, questa, che nessun Esposto potrà mai attenuare, di fronte alla rilevata impossibilità di fatto di tradurre in responsabilità giuridica del gestore ciò che avviene sulla strada, dallo schiamazzo all’atto osceno, dall’oltraggio al decoro all’atto vandalico, e resa anche più beffarda dal carico dei costi “sociali” (sovraccarico delle forze dell’ordine, pulizie stradali, danneggiamenti vari) che va a gravare sulla collettività.
A ciò si aggiunga che, in assenza di contenitori destinati allo scopo, e per tale scopo preventivamente autorizzati ed attrezzati, in molte aree cittadine, a partire dal centro storico e da luoghi con caratteristiche inadeguate, si improvvisano piccole sale da ballo e per la musica legittimate solo dalla cronica carenza di personale nelle forze dell’ordine e dalla ipocrisia burocratica: quella del Comune che vieta la “discoteca”, ma autorizza il “concertino” in un caffè- bar derogando ai limiti di rumorosità, e quella della SIAE che autorizza qualunque attività purché l’organizzatore paghi dazio.
Nessuno ricorda, invece, che il tanto bistrattato locale da ballo avrebbe dalla sua il rispetto comprovato di tutte le normative di sicurezza (ricambio d’aria, vie di fuga, servizi igienici, attenzioni alla disabilità, impianti elettrici ed acustici certificati, personale abilitato, ecc.) e potrebbe sottrarre al peso per la collettività una consistente porzione di umanità mossa dall’istinto genuino di voler stare insieme.
Al tempo del Covid lanciai una provocazione chiedendo che le discoteche fossero valutate come opzioni per ospitare quelle aule scolastiche in più di cui ogni istituto cittadino aveva bisogno per mantenere il distanziamento o quegli “hub vaccinali” che poi sono stati ricavati dallo sgombero coatto di palasport e palestre.
Ricapitolando: i reati e le violazioni, se ci sono, vanno puniti in qualunque contesto, ma spogliamoli da valutazioni pregiudiziali che nella realtà odierna si sono rivelate sempre inefficaci.
Smettiamo di demonizzare i locali in quanto tali, allora e, al contrario, rendiamoli funzionali ad un contesto, restituiamo loro il valore di presidio sociale e di incubatore di energie e idee, dotiamoli di strumenti per smorzare le conflittualità e facilitare la socialità sana.
Tutto questo può servire a grandi e piccini, ricordiamolo.
È scoccata, e già da tempo, l’ora della “Balera 2.0”: bisogna solo dotarla di una normativa adeguata ai tempi.