di Ida Meneghello
C’è un proverbio arabo che dice: è una cosa buona conoscere la verità e dirla. Ma è ancora meglio conoscere la verità e parlare di palme.
Talvolta la giustizia conosce la verità ma preferisce parlare di palme. Perché verità e giustizia non sono necessariamente la stessa cosa.
“La giustizia è la verità in azione”, dice l’avvocata Faith Killebrew.
“Qualche volta la verità non è giustizia”, replica il giurato Justin Kemp.
È sul confronto tra queste due visioni opposte del rapporto tra giustizia e verità, che Clint Eastwood ci regala il racconto, tesissimo e coinvolgente come un romanzo di Simenon, del suo nuovo magnifico film: “Giurato n. 2”, (Juror # 2), forse il suo ultimo considerando i 94 anni del regista. E se così fosse – ma nessuno se lo augura – questa pellicola sarebbe il testamento perfetto dell’esistenza lunga e irripetibile di un uomo grande, prima che grande attore e regista, che ha fatto della giustizia e dei limiti delle istituzioni che la amministrano una delle sue riflessioni predilette. Una riflessione suggerita allo spettatore attraverso storie essenziali, un linguaggio asciutto in cui ci sono solo le parole che devono esserci, e soprattutto sempre maledettamente onesta. Insomma Clint Eastwood.
“Giurato n. 2” ha la struttura tipica del film processuale, il genere “courtroom drama” che ha scritto un pezzo di storia del cinema: gran parte delle scene ha luogo nell’aula a Savannah, Georgia, dove si dibatte il caso di James Sythe, uomo violento con precedenti per spaccio, accusato di aver ucciso a bastonate la fidanzata Kendall Carter. I testimoni lo hanno visto litigare con la giovane donna in un bar affollato, inseguirla rabbioso nella notte sotto la pioggia torrenziale, poi scomparire nel buio. Due giorni dopo il corpo della ragazza viene trovato massacrato in un fosso sotto un ponte. Passa un anno e il processo sembra già chiuso ancora prima di cominciare, alla sbarra c’è l’imputato perfetto, l’avvocato dell’accusa Faith Killebrew (la bravissima Toni Collette) pregusta la vittoria e la nomina a procuratore distrettuale.
Nella giuria popolare chiamata a giudicare Sythe c’è un giovane uomo, Justin Kemp (ha la faccia perbene dell’attore inglese Nicholas Hoult), che accetta a malincuore la nomina perché la moglie Ally è in attesa del loro primo figlio e la gravidanza è a rischio, l’anno prima ha perso due gemelli.
Non rivelo niente che non sia già presente nel trailer e raccontato fin dalle prime scene del film. Nel corso della ricostruzione dei fatti presentata all’inizio del dibattimento dall’accusa e dalla difesa – il montaggio è eccellente nell’offrire i due punti di vista degli avvocati che si alternano e si completano a vicenda – arriva a sorpresa un terzo punto di vista: i flashback di Kemp, il giurato n. 2, che si rende improvvisamente conto che la notte del delitto c’era anche lui nel locale, era lì per affogare nell’alcol il dolore per la perdita dei gemelli. Lui è un ex alcolista e decide di non bere, assiste al litigio fra Sythe e la fidanzata, sale in auto per tornare a casa e proprio in quella notte di pioggia torrenziale investe “qualcosa” che crede sia un cervo. Scende dall’auto ma non vede niente. All’inizio del processo in cui è giurato scopre così di essere l’autore dell’omicidio di cui è accusato Sythe.
Eastwood conduce lo spettatore dentro una pellicola che evoca apertamente capolavori come “La parola ai giurati” di Sidney Lumet e i flashback de “La fiamma del peccato” di Billy Wilder. La bravura del regista sta nel raccontarci senza pregiudizi il dramma di un uomo perbene che non può permettere sia condannato un innocente e tuttavia non può confessare di essere l’autore involontario di un omicidio perché, essendo un ex alcolista, rischierebbe trent’anni di carcere e la fine della sua vita e della sua famiglia.
È dunque un dilemma morale quello che attanaglia il giurato n. 2 all’insaputa degli altri componenti la giuria, tutti convinti della colpevolezza di Sythe e desiderosi di chiudere in fretta il processo per tornare alle loro consuete occupazioni.
Non rivelo cosa farà Kemp, come si schiereranno i giurati, le decisioni degli avvocati e quale sarà l’esito di una storia ricca di colpi di scena e con la suspence perfetta per tenere lo spettatore col fiato sospeso fino alla scena finale.
“Questo sistema, per quanto imperfetto, è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia”, dice la giudice che presiede la corte. Da che parte stia Eastwood in questa storia è chiaro fin dall’esergo iniziale: “la giustizia è cieca, la colpa vede tutto”.
La forza del film sta nel fornire allo spettatore i dubbi, le incertezze e i diversi punti di vista che gli permettono di riflettere sul dilemma tra verità e giustizia: cosa faremmo al posto del giurato?
È un film, per dirla con le parole del regista, che “guarda con attenzione alla zona grigia, a tutto ciò che accade tra il bianco e il nero della vita quotidiana”.
Ed è questa la grandezza di Eastwood: a 94 anni ha mantenuto intatto uno sguardo compassionevole per l’umana fragilità delle nostre vite, senza concedere niente al cinismo della vecchiaia. Nonostante tutto.