L’articolo che segue è di una giovane elettrice che ha fatto la scrutatrice alle recenti elezioni regionali fra i malati dell’ospedale di Perugia. Un racconto il suo inaspettato e commovente. Una risposta antiretorica a chi non va a votare
di Ilaria Balducci
Foto ©Fabrizio Troccoli
Tre piccole stanzette solitamente adibite ad altro, sgomberate dai mobili per divenire uno spazio comune a tutti; tre squadre di sconosciuti di tutte le età e background culturali e sociali che scelgono volontariamente di passare due giorni insieme chiusi in quelle stanzette; tre guardie appostate al di fuori di esse a controllare che tutti rispettino le regole dei giochi.
Sembra essere la premessa fondamentale per un qualunque reality show mandato in onda dalla BBC, ma è ciò che capita in ogni ospedale d’Italia ogni volta che i cittadini vengono chiamati a votare o, più precisamente, ciò che è capitato nell’ospedale al quale ero stata assegnata in qualità di scrutatrice, ultimo anello della catena di gerarchie che occupano quelle stanzette. Ma come primo lavoretto va più che bene, in fondo ho vent’anni e sono solo al mio secondo appuntamento elettorale.
Sono le sette e fa freddo, ma non quel freddo che ti entra nelle ossa dei giorni precedenti, il cielo è limpido e nessuno ha cercato di sorpassarmi mentre facevo il tragitto in microcar da casa all’ospedale; ha ragione Gaber, c’è un clima diverso nell’aria il giorno delle elezioni. Dopo aver trovato miracolosamente parcheggio esco dalla mia macchinina, navigo tra i volantini elettorali sparsi illegalmente tra le file delle macchine parcheggiate, arrivo all’entrata ed inizio a scrutare i pannelli informativi per capire dove andare: maledico chiunque abbia deciso che quei pannelli informativi fossero comprensibili e mi reco verso la segreteria dove incontro un’altra disperata nella mia stessa situazione.
Secondo piano, all’entrata una bella bandiera dell’Italia ed una dell’Europa, cammino a passo svelto, saluto i poliziotti seduti al tavolino, supero altri due seggi e finalmente raggiungo il mio. C’è un gran vociare sul da farsi, i ragazzi passano da una stanzetta all’altra armati di scotch e forbici, per legge molti cartelloni devono essere appesi perché una piccola stanzetta spoglia diventi il luogo dove si esercita il più importante dei diritti.
E inizia l’attesa: per gli scrutatori del seggio stabile che i primi pazienti capaci di recarsi al seggio arrivino; per me ed altri due ragazzi, sempre sulla ventina, che giungano le prime telefonate della dirigenza medica, così da poter iniziare le operazioni di voto del seggio mobile, armati di una cartella rosa con le liste dei nominativi, un timbro, delle graffette, le matite (“lunghe, sottili e marroncine, perfettamente temperate”) e due preziose buste marroni, una con le schede verdi autenticate, l’altra per quelle votate.
Ripenso a tutte le rassicurazioni di mia madre:
Mi raccomando, tesoro, agli occhi di quelle persone rappresenterai le istituzioni, sii cordiale e sorridente sempre…
Non vedo l’ora di fare la mia parte per la prima volta, di porgere in mano le schede, così fiera di essere un piccolo ingranaggio di questo orologio un po’ impolverato e di difficile manutenzione chiamato democrazia.
Ho il cuore pieno.
“Una curiosa sensazione
che rassomiglia un po’ a un esame
di cui non senti la paura
ma una dolcissima emozione”
…
(“Le elezioni” – Giorgio Gaber)
Ancora non lo so ma sta per presentarmisi davanti la galleria di pazienti elettori che stasera racconterò in macchina al mio ragazzo, stringendogli la mano e piangendo come una fontana.
Come la signora Rita(*), capelli impeccabili, arrivata al seggio di persona nonostante la sedia a rotelle, che si mette in piedi appoggiando entrambe le mani sul banchetto e sfila dalla vestaglia la tessera elettorale, un gran sorriso, svanito solo per un attimo quando il presidente ha deciso di enunciare la sua data di nascita a gran voce.
– Non si preoccupi, li porta bene!
– Be’, be’, fino a qualche anno fa avrei potuto darti ragione, ma alla terza chemio… Però questa cosa qua la voglio proprio fare.
Con forza stringe la scheda con una mano mentre con l’altra si appoggia dove può; un passo, un altro, scosta le tende ed entra nella cabina. Passati una manciata di secondi la signora esce; veloci come soldatini ci facciamo da parte, chi da un lato chi dall’altro della stanza: un passo, un altro, raggiunta l’urna appoggia la mano sinistra sul tavolino mentre con la destra infila la scheda e da due colpetti allo scatolone bianco; si prende una piccolissima pausa, quasi impercettibile, gli occhi son chiusi ed ora entrambe le mani sono poggiate sul banchetto.
– La signora Rita ha votato.
Lei tira un sospiro, riapre gli occhi e torna a sorridere. Bene – si risiede sulla carrozzina, varca la porta accompagnata dall’infermiera e una volta sul corridoio si ferma, rivolge un’ultima volta il viso verso il seggio – Grazie mille ragazzi.
Ma la galleria la affollano soprattutto i pazienti allettati, che inizialmente si presentano solo come un’immane mole di intricata burocrazia e dettagliate istruzioni: quando il seggio volante riceve una chiamata dalla dirigenza medica all’ottavo piano, dobbiamo partire a ritirare le liste dei nomi suddivise per reparti. Liste che contano uno, due, massimo tre nominativi. La squadra deve organizzare le operazioni di voto, tenendo conto del passaggio dei medici, della distribuzione di pasti e terapie, degli orari di visita (intervalli tutti da evitare) nonché delle prudenti cautele riservate ai reparti più delicati, come quelli di Ematologia o TMO. Bisogna attendere di averne una massa critica, organizzare gli spostamenti in funzione della dislocazione dei reparti, tornare tempestivamente al seggio del secondo piano (perchè le schede votate non rimangano troppo a lungo esterne ad esso), ricontarle con gli scrutatori e deporle una ad uno nell’urna (tutto per la metà della paga rispetto agli scrutatori del seggio stabile – ma ripetiamo: “come primo lavoretto va più che bene”).
Macchinoso? Laborioso? Dispersivo? Si, ma alla fine il nostro seggio speciale da solo avrà fatto votare quasi una cinquantina di pazienti elettori.
Pochi? Dipende.
Solo far votare sette pazienti di Malattie Infettive ha richiesto più di un’ora.
Eh sì, perchè: cuffia, maschera, camice, guanti, copriscarpe. Trattieni il respiro, inizialmente ti scordi che sono persone, hai solo un po’ di paura e vuoi che finisca al più presto, così da sventare ogni sorta di pericolo. Sempre stata un po’ paranoica, ma i miei compagni di seggio sembrano non darsene pensiero, perché mai dovrei proprio io? Però domani volevo far visita a nonno, e poi quell’amica che non vedevo da tempo torna in città e mi faccio trovare con la febbre? O peggio? Non ci devi pensare, è inutile. Bussi alla prima porta, entri in un piccolo spazietto, la chiudi dietro di te, bussi alla seconda, entri lasciandoti anche questa chiusa alle spalle, ti poggi dove capita, a malapena ti sei girata per guardarlo steso sul letto, tanto il tuo compito è quello di raccogliere le generalità, il foglio mandato dal comune di residenza, e fare un timbro, non c’è alcun bisogno che tu ti esponga tanto di più.
E poi arriva l’ultimo, il signor Maurizio.
La settima porta, il settimo paio di guanti, la settima mascherina, il settimo ed ultimo al quale abbiamo fatto visita nel reparto di malattie infettive.
Il signor Maurizio, che tossisce mentre si mette seduto sul letto spingendosi con i gomiti.
– Che gran festa ragazzi! Era più di un mese che non vedevo così tanti visi… vabbè vedervi vi vedo a malapena, però fa tanto, tanto piacere un po’ di compagnia. Tenete, tenete, tessera e tutto, su!
E mi porge tutto il necessario tenuto insieme da una graffetta. Non ho più paura, senza esitare mi avvicino con la testa vuota e lo spirito pieno, prendo tutto ringraziandolo.
E’ andata meglio con la signorina Becchetti: una paziente del reparto di Chirurgia Generale, magrolina, sull’ottantina, una zazzera rossa e il carattere frizzantino di chi ha scelto volutamente di rimanere signorina; l’hanno derubata da poco due ragazzotti – ci riferisce. Italiani – ci tiene a precisare. Non ho più i documenti, ma c’ho tutte le fotocopie – ghigna. E mi spedisce a frugare nella borsetta, rossa, laccata, anzi nel turgido portafoglio in tinta. Nel frattempo lei, piccolina di statura e veloce come una scheggia, si alza dal letto da sola, afferra la scheda, la stende ben bene sul banchetto, tutto prima che io riesca a timbrare la tessera elettorale.
– Aspetti signora, aspetti!
La Becchetti è a gambe divaricate, gomiti poggiati sul tavolino, matita in mano, i capelli le cadono sul viso formando una specie di cresta ramata, la vestaglia a pois è la più bella di tutto il reparto.
– Cara ragazza mia, il mio voto non è segreto dagli anni Sessanta, non ho intenzione di farmi problemi adesso!
Mi fa un occhiolino, le ricambio un sorriso e tirando la tenda che la separa dall’altro paziente, esco.
Ormai sera, mentre stringo la mano del mio ragazzo, l’intera galleria dei miei cinquanta pazienti elettori (che fa quasi sorridere, no? Sono il doppio dei venticinque lettori di Manzoni) ritorna a scorrere velocemente, un’immagine dietro l’altra. Prendo fiato e inizio a parlare con gli occhi che si riempiono e si svuotano alternativamente. Intercalando come una cantilena – Quanto sono felice, amore!, elenco una lunga carrellata disordinata di volti, di storie e di scambi.
Storie di tristezza, certo, ma a farmi piangere mentre racconto è più di tutto la commozione di fronte a tanta caparbia resilienza.
Dalla ragazza al reparto di Oncologia che ci ha chiesto una foto da mandare al padre (ché Mica ci credeva che passavate a prendere il mio voto, invece guarda qua!), al malato dalle mani tremanti, che ha impiegato un’infinità di tempo e di sforzi per scrivere i nomi dei suoi due candidati (e l’elettore medio nemmeno scorre l’elenco della lista che vuole votare!); dal paziente di Medicina Interna cui s’era sfilato dalla mano destra l’ago ipodermico nel tracciare la sua “X”, e che non ha fatto che rassicurarci, lui a noi, stupidamente agitati alla fuoriuscita di un po’ di sangue (Un po’ di sangue ragazzi, tranquilli, nulla di che…) all’anziano paziente di Chirurgia Generale che, afferrato con gesto svelto il braccio del mio compagno prima che fosse in grado di uscire dalla stanza, con fare cauto gli ha sussurrato all’orecchio: Non è che mi indichi dove sta il PD? Tanto lo so che se’ di sinistra su, sennò tuquie ‘nce stavi.
Sento che d’ora in poi, ogni volta che voterò, il mio pensiero sarà con il paziente di Pneumologia, intubato in terapia intensiva, che ha depositato il suo voto letteralmente con gli occhi, incapace di parlare ma in grado di far valere la sua voce. Ma il mio pensiero andrà anche alla mia bisnonna che ha potuto votare a 30 anni e dopo 4 figli: e che pure ha fatto parte della mia vita. Lei, come tante, ottenuto questo diritto, ne ha insegnato l’importanza alle proprie figlie: la generazione della signora Rita, quella con tre chemio e i capelli fatti e con la sua immensa e irriducibile volontà.
Oggi sento che l’eredità che mi stanno consegnando non si declina più in concetti astratti come diritto e dovere civico, ma ha un suono tutto diverso, immensamente più dolce: speranza e futuro.
(*) per rispettare la privacy dei votanti, nomi ed cognomi usati sono tutti di fantasia.