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di Antonella Valoroso

Con l’elezione di Stefania Proietti a Presidente della Regione – la quarta donna consecutiva a ricoprire questa carica dopo Maria Rita Lorenzetti, Catiuscia Marini e Donatella Tesei (l’ultimo presidente uomo fu Fabio Paparelli, subentrato alla dimissionaria Marini senza essere eletto) – e Vittoria Ferdinandi come prima Sindaca di Perugia, la regione si distingue come un caso unico in un panorama nazionale e internazionale ancora largamente dominato da uomini in tutte le posizioni di potere. Ma l’Umbria sta davvero riscrivendo la storia della leadership femminile in Italia? E se è così, perché è proprio nel cuore verde (o rosso) d’Italia che sta prendendo forma questa singolare rivoluzione rosa?

Il paradosso della leadership femminile

Gli studi sulla leadership femminile evidenziano un persistente paradosso. La psicologa sociale Alice Eagly osserva come gli stereotipi di genere creino inevitabilmente un «double bind» per cui le donne leader si trovano spesso a navigare tra l’essere percepite come troppo gentili – quindi deboli – o troppo assertive – quindi inappropriate. Il genere femminile è difatti spesso associato a stereotipi che dipingono le donne come compassionevoli e belle, mentre la leadership richiede qualità opposte: capacità decisionale e fermezza. Se dunque le donne appaiono troppo gentili, rischiano di essere percepite come deboli; se al contrario si mostrano troppo assertive, possono essere considerate antipatiche o, come dicono in USA, bossy, che è tutt’altro che un complimento, come ben sanno Hillary Clinton e Kamala Harris.

Anche uno studio di Madeline Heilman, professoressa di psicologia alla New York University, ha messo in evidenza come gli stereotipi di genere influenzino la percezione dei leader. I soggetti presi in esame nella sua ricerca tendevano infatti ad attribuire ambizione e potere più frequentemente agli uomini rispetto alle donne, anche a parità di posizione. E si tratta di pregiudizi che non appartengono esclusivamente al mondo maschile: anche molte donne, assimilando e interiorizzando determinati stereotipi culturali, spesso faticano ad accettare altre donne in ruoli di leadership.

Eppure l’Umbria del 2024 sembra più che mai sfidare queste dinamiche. Perché in questa regione – una delle più piccole e ‘deboli’ dal punto di vista identitario – le donne hanno storicamente avuto un ruolo centrale, non solo nelle istituzioni politiche ma anche nella cultura, nell’economia e nella società. Questo fa dell’Umbria un laboratorio unico in cui osservare come il cambiamento culturale possa scardinare stereotipi e aprire nuove possibilità per la leadership femminile.

Per celebrare questa eredità e interrogarsi sulle sue implicazioni, abbiamo deciso di inaugurare una serie di articoli che esploreranno la storia e le storie delle donne che hanno attraversato e segnato la vita della regione dai tempi più remoti all’attualità più prossima, analizzando le loro azioni e il contesto in cui hanno operato per osservare da vicino il modo in cui hanno superato (o meno) gli ostacoli e ridefinito i confini del possibile.

Non ci resta dunque che ripartire dall’inizio. E in principio furono sicuramente le Etrusche.

L’eredità etrusca: le radici di un’eccezione

Nell’antica civiltà etrusca le donne godevano di diritti straordinari per l’epoca. Tra il VI e il IV secolo a.C., nell’area dell’Etruria propriamente detta – Toscana, alto Lazio e Umbria – le donne partecipavano attivamente alla vita pubblica e godevano di un grado di emancipazione, libertà e autonomia mai sperimentato da alcuna donna prima di allora, neanche dalle mitiche donne di Sparta. 

«Le donne etrusche, –  come ha scritto lo studioso Jean-Paul Thuillier – a differenza di Penelope e Andromaca, non si accontentavano di attendere pazientemente a casa il ritorno degli sposi, ma prendevano legittimamente parte a tutti i piaceri della vita». Soltanto a partire dal IV secolo l’influsso dei Greci e dei Romani avrebbe determinato nella penisola italiana una regressione della condizione sociale della donna destinata a durare per secoli.

Le donne etrusche avevano un nome proprio

Una prima importante peculiarità delle donne etrusche, attestata da numerose iscrizioni rinvenute sui loro oggetti personali, era quella di possedere un nome proprio: Veilia, Anthaia, Thania, Larthia, Tita, Nuzinai, Ramutha, Velthura, Thesathei. A Roma, invece, le donne venivano denominate esclusivamente con il nome della famiglia (gens) alla quale appartenevano: Tullia, Iulia, Cornelia, e così via. Nel caso in cui ci fossero due donne nella stessa famiglia romana, queste venivano identificate attraverso l’uso di numerali, ossia prima, secunda, tertia, oppure con gli aggettivi maior e minor nel caso in cui fossero soltanto in due, come nel celeberrimo caso di Agrippina maior e Agrippina minor.
Sono proprio le iscrizioni rinvenute sugli oggetti a dirci molto sulla condizione della donna etrusca.
Veilia, Anthaia e le altre donne di condizione aristocratica non solo possedevano oggetti ma erano in grado di leggere e, molto probabilmente, gestivano in proprio anche attività commerciali. 

Orgogliosa, raffinata e gentile, la donna etrusca gradiva i piaceri mondani, amava vestirsi bene e indossare gioielli preziosi e di buona fattura, dedicava molto tempo alla cura del corpo e del proprio aspetto, sperimentava acconciature elaborate e ricopriva un ruolo importante sia a livello familiare sia a livello sociale. Partecipava liberamente a eventi pubblici e intrattenimenti e godeva inoltre di una mobilità personale senza precedenti, potendo viaggiare senza necessità di accompagnatori maschili.

Evidenze archeologiche

Anche i reperti archeologici ci restituiscono il ritratto di una società in cui le donne godevano di una raffinatezza e un’indipendenza straordinarie. I corredi funerari raccontano di una vita ricca e articolata: accanto agli strumenti per la tessitura e la filatura, attività praticate anche dalle nobildonne con l’aiuto delle loro ancelle, si trovano specchi finemente decorati, gioielli preziosi e ornamenti elaborati. Le etrusche erano donne belle e sofisticate, spose e madri che non conducevano una vita da recluse tra le pareti di casa, ma trascorrevano molto tempo in società, partecipavano a eventi mondani, gare sportive e spettacoli. 

Gli affreschi della Tomba delle Bighe a Tarquinia offrono una testimonianza vivida della libertà sociale di cui godevano le donne etrusche. Le scene rappresentate, che mostrano donne che partecipano liberamente a eventi pubblici e abbracciano liberamente gli uomini che le affiancano, erano considerate scandalose dai contemporanei greci e romani. In Grecia e a Roma le uniche donne ammesse ai banchetti erano infatti le meretrici. Aristotele osservava con orrore che «gli Etruschi banchettano con le loro mogli sdraiate sotto la stessa coperta», mentre Teopompo di Chio, retore e storico vissuto a lungo alla corte di Filippo II di Macedonia, scriveva che «era costume presso gli etruschi che le donne fossero in comune: esse curano molto il loro corpo, facendo esercizi sportivi da sole o con gli uomini; non ritengono riprovevole comparire in pubblico nude; stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle da vedere». Il commediografo latino Plauto, invece, nella Cistellaria, sostiene per bocca di uno dei suoi personaggi che le donne etrusche avevano l’abitudine di farsi la dote «con disonore», ossia prostituendosi. 

La moderna archeologia di genere o gender archeology – una corrente di pensiero nata nei paesi anglofoni grazie all’incontro tra l’archeologia teorica, i movimenti femministi e la volontà di restituire voce alle minoranze etniche – ha dimostrato che si tratta per lo più di illazioni senza fondamento, nate dalla volontà di gettare fango su una società in cui le donne non procedevano un passo indietro, ma a fianco degli uomini. Ma zittire Aristotele, Teopompo e Plauto è ancora oggi un’impresa non da poco.

Famiglia, arte e maternità

Anche nell’ambito familiare la donna etrusca – che a differenza delle donne greche o romane non era posta sotto la tutela del padre o del marito – rivestiva un ruolo centrale. Si occupava dell’educazione dei figli e possedeva un’autorità decisionale impensabile nelle società coeve. 

La maggior parte degli studiosi smentiscono l’ipotesi che la società etrusca avesse un impianto matriarcale, tuttavia il riconoscimento dell’importanza del ruolo della donna etrusca nel contesto familiare è un fatto pienamente acclarato. Non è un caso che anche l’arte etrusca si distinguesse per la sua celebrazione aperta della maternità, in netto contrasto con la cultura greca che evitava di raffigurare madri nell’atto di allattare i propri figli perché «tale gesto – come puntualizza l’etruscologa Larissa Bonfante – faceva parte del mondo delle Eumenidi, del mondo del sangue, della natura quasi animale dell’uomo”. Tra i principali capolavori dell’arte etrusca, presso il Museo Archeologico di Firenze, troviamo invece proprio la raffigurazione di una donna che allatta un bambino: la Mater Matuta, dea italica del mattino e dell’aurora, protettrice della fecondità, della maternità e della nascita. 

La tradizione di ritrarre insieme madri e figli è attestata in molte altre opere: dalla kourotrophos (“colei che nutre il bambino”) di Veio al bronzetto del Louvre, che ritrae una madre con il proprio figlio per mano, fino alla maestosa statua rinvenuta a Veio raffigurante Latona che culla il piccolo Apollo.

[Continua]