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di Ida Meneghello

Capita di vedere film che ti chiedi perché sono stati fatti e film che ti restano dentro a lungo, film commoventi e film che lasciano indifferenti. Raramente succede che un film travolga lo spettatore che lo guarda imbambolato senza riuscire a staccare gli occhi dallo schermo. “Emilia Pérez” appartiene alla categoria dei film travolgenti.

Non si può immaginare una storia più bizzarra di un boss del narcotraffico messicano che decide di diventare donna non per far perdere definitivamente le proprie tracce, ma perché quella donna ce l’ha dentro da sempre. È come se don Vito Corleone confessasse a un attonito sinedrio di capi mafia il sogno proibito di diventare “fimmina” e di piantare tutto per ricominciare da capo.
Ma in fondo la New York di Francis Ford Coppola non è molto diversa dalla Città del Messico crudele e stropicciata che il regista e sceneggiatore francese Jacques Audiard evoca al culmine della sua carriera trentennale, regalandoci un film che gli ha già meritato gli applausi interminabili di Cannes (dove è stato premiato l’intero cast femminile oltre ad aggiudicarsi il Premio della Giuria) e il poker ai Golden Globe.
Ed è facile prevedere che questo sia solo l’inizio della marcia trionfale di “Emilia Pérez”, uno di quei miracoli che talvolta accadono e ci ricordano cos’è il grande cinema.

Una storia così sarebbe scontato raccontarla con i toni cupi del grottesco perché ne ha tutti gli ingredienti. E invece, ed è il secondo colpo di scena che non ti aspetti, il regista sceglie un altro registro che spiazza e incanta lo spettatore: il musical, dopo aver accarezzato l’idea di farne un’opera lirica. E allora non resta che inchinarsi al genio. Perché a immaginare un musical che ha per protagonista un boss dei narcos che vuole diventare donna non ci aveva pensato nessuno, neanche Almodóvar.

“Emilia Pérez” è una commedia musicale originale non solo per il soggetto, ma anche per la struttura che non segue la classica alternanza di canzoni e recitato: il film è a tutti gli effetti un noir, ma il ritmo incalzante del thriller viene esaltato dalle musiche firmate dal compositore francese Clément Ducol e dalle canzoni della cantautrice e sua compagna Camille Dalmais. Il risultato è una storia dominata dalle donne (giustamente premiate in blocco a Cannes) che si affiancano al boss messicano nella sua seconda vita.
C’è l’avvocata Rita Moro Castro che ha capito che non può cambiare un mondo dove i femminicidi vengono fatti passare per suicidi (la straordinaria Zoe Saldana, Golden Globe alla migliore attrice non protagonista). C’è la moglie del boss Jessica (Selena Gomez) ed Epifanía che si innamorerà di lui dopo la transizione (Adriana Paz). E c’è lui che diventa lei, il truce Manitas Del Monte ovvero Emilia Pérez, incarnata dall’attrice spagnola transgender Karla Sofìa Gascòn. È lei (opportunamente truccata) a presentarci il feroce narcotrafficante che sequestra Rita per chiederle di assisterlo nella transizione che ha deciso di compiere: sa di avere fin dalla nascita due identità, il suo vero sé e il mostro che non lo ha mai lasciato e con cui ha dovuto fare i conti diventando il più cattivo dei cattivi. Sa anche che per far vivere la donna che è sempre stata dentro di lui dovrà affrontare un percorso di trasformazione lungo e doloroso e rinunciare alla sua famiglia amatissima. Quando ritrova l’avvocata, a Londra quattro anni dopo, è irriconoscibile: una donna che impone la sua bellezza giunonica quasi fosse Anita Ekberg e ha la voce roca di Claudia Cardinale.

È inessenziale raccontare cosa succede nel corso dei 132 minuti del film, scanditi dal ritmo travolgente delle musiche e delle coreografie. Ciò che conta è che “Emilia Pérez” è una storia di redenzione, un male immenso che dà origine a un desiderio di riscatto altrettanto grande che coinvolge un’intera comunità. Emilia guarda con occhi nuovi il mondo e scopre ciò che non vedeva: il dolore della gente.
“L’idea del film è stata quella di raccontare una tragedia cantandola”, ha spiegato Audiard. “Sono partito dalla lettura di un romanzo, “Écoute” di Boris Razon, dove a metà del racconto appare un narcotrafficante che vuole fare una transizione, un cambiamento di sesso. La cosa mi aveva colpito moltissimo, ma ancor di più mi aveva colpito il fatto che l’autore non avesse sviluppato oltre quel personaggio, quindi io ho deciso di dargli un seguito.”
Così è nata Emilia Pérez, un film che riflette in definitiva sui “confini”. “Il confine è quella cosa che ci fa capire che c’è un conflitto, perché c’è un momento A e un momento B, un prima e un dopo”, dice Audiard. “La cosa interessante sarebbe analizzare cosa accade quando si è proprio sul confine, né prima né dopo, quando si è proprio sulla linea.”
Emilia trova il coraggio di stare sul confine, con le inevitabili conseguenze.

Nella scena finale una fiumana di gente segue una banda che suona una versione cubana della canzone di Georges Brassens “Le passanti”. È stata un’idea del regista per l’unica scena girata davvero in Messico.
“Voglio dedicare questa poesia a tutte le donne amate in qualche istante segreto, a quelle che si conoscono appena e che un destino avverso trascina via e non si ritrovano più”. È questa in fondo la storia che ci racconta “Emilia Pérez”.