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di Ruggero Ranieri
Foto ©Fabrizio Troccoli

Tre anni fa, nell’aprile 2022, si perfezionava l’acquisto della AST ThyssenKrupp da parte di Giovanni Arvedi. Si aprivano prospettive nuove e interessanti sia pure fra qualche ombra. Le prime hanno tardato a materializzarsi, le ombre, invece, sono diventate più cupe e rischiano di compromettere il futuro.

Arvedi parlava allora di aggiornare l’azienda che usciva da 10 anni di “intorpidimento”. Parlava di renderla competitiva, di valorizzare la dirigenza locale, e di impostare un ambizioso programma di investimento, stimato fra i 700 milioni e un miliardo di euro, portando così la produzione a 1,5 milioni di tonnellate annue (mta). Si pensava di rilanciare non solo la produzione dei prodotti piani di acciaio inossidabile e dei grandi fucinati (storica specialità ternana), ma anche quella del magnetico, smantellato nel 2005 dalla ThyssenKrupp, creando così un nuovo centro finitore a Terni in congiunzione con le produzioni a caldo di Cremona.  

Già tre anni fa, Arvedi parlava della necessità di un Accordo di programma tale da coinvolgere le istituzioni locali e nazionali, per affrontare la questione dell’energia, in particolare per permettere la produzione di idrogeno verde con cui alimentare i forni di riscaldo dell’acciaieria: un passo strategico verso la de-carbonizzazione. Arvedi diceva allora, e dice ancora oggi, che l’AST è nata “perché c’era l’energia qui vicino” e da questo deve trarre il massimo vantaggio.

Tre anni dopo a che punto siamo? Alla domanda si può rispondere semplicemente con il titolo di una intervista rilasciata il 9 febbraio scorso dall’ Amministratore Delegato della Arvedi AST, Dimitri Menecali. “Nessun accordo senza soluzione sul costo dell’energia”. L’intervista è stata rilasciata dopo l’ennesimo incontro fra Regione Umbria, Comune di Terni, Azienda e sindacati sulla definizione del famoso Accordo di Programma, che si trascina da tre anni. Arvedi chiede sostegno nel breve termine sui costi di approvvigionamento energetico e impegni nel medio lungo termine. I costi energetici sono un problema reale, ma quanto è giustificata l’azienda nel porre questa condizione per completare il programma di investimenti annunciato? 

Si tratta di problemi complessi che si intrecciano con negoziati europei e nazionali (attuazione del Green Deal, uso delle risorse del PNRR, rinnovo delle concessioni idroelettriche) e vanno visti insieme allo sviluppo dei mercati degli ultimi anni. Quando si parla di AST, infatti, non si può dimenticare che siamo di fronte a uno dei maggiori produttori europei di acciaio inox, insieme a Aperam, azienda franco-lussemburghese del gruppo Mittal, la spagnola Acerinox e alla finlandese Outokumpu. Quello che avviene a Terni è riflesso dei grandi movimenti nella siderurgia mondiale, ancor prima che italiana e europea. Affronteremo, quindi, brevemente quanto è avvenuto dal 2022 ad oggi, per comprendere meglio quello che è in gioco.

Il mercato dell’inossidabile è un segmento di nicchia e di maggiore valore aggiunto, del più vasto mercato della siderurgia. Ne riflette, perciò, le stesse dinamiche produttive. La produzione mondiale di acciaio ha segnato nel 2024 una contrazione rispetto agli anni precedenti. Il fattore più rilevante è la posizione acquisita dall’Asia e al suo interno dalla Cina, che produce circa 1 miliardo di tonnellate l’anno contribuendo per il 50% dell’output mondiale. È seguita dall’India e a molta distanza dal Giappone. Ancora più distante è l’Unione Europea, trainata dalla Germania. Nel 2024 si è registrato un rallentamento dell’economia cinese, tanto che molte acciaierie hanno inondato i mercati internazionali con prodotti a basso costo, spingendo i concorrenti ad alzare barriere tariffarie. 

La perdita di competitività dell’industria siderurgica europea non è che uno specchio del declino relativo di tutto il settore manifatturiero. Il mercato dell’acciaio in Europa è stato condizionato, inoltre, dalla frenata della Germania, in particolare del settore dell’automobile, con Volskwagen e Mercedes che annunciano tagli e chiusure. Nel complesso, tra il 2018 e il 2023, il consumo europeo di acciaio è sceso del 15%. 

Se guardiamo alle vicende di alcuni grandi produttori siderurgici europei, il quadro si precisa ulteriormente: in Germania la ThyssenKrupp ha ceduto il 20% della propria divisione Steel al magnate ceco Daniel Kretinsky e prevede un taglio di 11 mila posti di lavoro e di 2 milioni di tonnellate. In Francia è fallita Ascometal, produttrice nazionale di acciai di qualità, cedendo i propri asset per via giudiziaria, per cui l’azienda di Marcegaglia si è aggiudicato l’importante stabilimento di Fos-sur-Mer presso Marsiglia. In Gran Bretagna, dove il calo produttivo è stato veramente drammatico, la Tata Steel ha chiuso le cokerie e l’altoforno a Port Talbot, sulla costa gallese, sostituendoli con forni elettrici; lo steso ha fatto British Steel con il sito di Scunthorpe nel Nord-est 

In Italia la sofferenza maggiore si è avuta alle Acciaierie d’Italia e al loro maggiore stabilimento, Taranto, il quale, nato per produrre 10 mta, nel 2024 ne ha prodotte solamente due. È nota la lunga controversia giudiziaria che ha interessato l’azienda negli ultimi 15 anni, portando, attraverso ripetuti interventi pubblici, prima all’espropriazione di Riva, poi all’uscita forzosa di Arcelor Mittal. Ultimamente il governo ha proceduto al commissariamento, emettendo un bando di vendita, al quale hanno aderito due produttori: l’indiana Jindal e la Baku Steel dell’Azerbaijan. Nessun produttore europeo si è fatto avanti, mentre vari siderurgici italiani hanno fatto proposte di acquisto parziale di rami dell’azienda.

Le difficoltà europee sono rese più drammatiche dalle scadenze imposte dal Green Deal che vanno a colpire soprattutto la produzione a ciclo integrale (quella basata sul carbone e l’altoforno), praticata dal 60% della siderurgia europea, escludendola, a partire dal 2030, dall’assegnazione di quote gratuite di CO2 che le aziende possono acquistare secondo il sistema degli ETS (Emission Trading System). Si prospetta come via d’uscita il passare dal carbone all’idrogeno, con impianti DRI (Direct Reduced Iron), ma è una via a tutt’oggi estremamente costosa. Colpito soprattutto è il settore della siderurgia che produce per l’automotive, a sua volta messo in difficoltà dalla transizione dal motore endotermico a quello elettrico. 

Le tendenze del mercato dell’inossidabile coincidono in larga misura con quelle più generali. La Cina domina la produzione e la domanda a livello globale ed è anche il principale paese esportatore. Di contro, l’Europa, nel 2023, con circa 5,9 mta è calata del 20% rispetto al 2018, mentre la Cina ha guadagnato il 40%. Nel complesso la quota dell’Europa nella produzione mondiale è scesa dal 17% del 2015 al 10% del 2023. 

Se guardiamo in particolare l’Italia, la domanda di inossidabile, pur scendendo, è rimasta abbastanza sostenuta. Il mercato italiano assorbe infatti 26 kg di acciaio inox a persona, più della Spagna, della Germania e della Francia. Si tratta di un mercato costituito di moltissimi segmenti specifici, alimentato da una pletora di aziende medio-piccole, alcune specializzate nella rilaminazione. I settori più dinamici sono il farmaceutico, l’alimentare e il trattamento delle acque.

I prezzi hanno subito forti oscillazioni: dopo i rialzi post pandemici vi è stato un calo continuo dai massimi toccati nel 2022. Nel 2024, dopo un buon andamento nel primo semestre è intervenuta un’ulteriore flessione, dovuta alla crisi dell’industria dell’automobile, dell’edilizia (con la fine degli incentivi del superbonus) e degli elettrodomestici. Prezzi calanti significano indebolimento della domanda e dei profitti delle aziende

A questo quadro poco lusinghiero si aggiungono le prospettive legate ai processi di decarbonizzazione. L’acciaio inox, per la sua lunga durata e resilienza, è da sempre un prodotto con un timbro ecologico positivo; negli ultimi anni anche i processi produttivi hanno migliorato il loro impatto ambientale, attraverso l’uso di tecnologie verdi e l’aumentato riciclo. Tuttavia, è opinione diffusa che il nuovo sistema europeo del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism) introdotto in forma di progetto pilota alla fine del 2023 e che entrerà pienamente in vigore all’inizio del 2026, funzionerà come una barriera commerciale, mettendo in difficoltà le aziende sui mercati extra-europei. Sul piano globale si affaccia, inoltre, un inasprimento dei dazi americani voluti dalla presidenza Trump, che probabilmente congelerà i negoziati fra USA e UE.

Infine, ci sono i costi dell’energia, particolarmente elevati per la produzione dell’inossidabile. Con la crisi energetica del 2021, legata alla guerra in Ucraina e all’accendersi dell’inflazione, si è allargato il gap già esistente fra i prezzi italiani e quelli dei concorrenti europei. 

È chiaro, quindi, come in queste acque agitate anche per l’AST di Arvedi le prospettive siano molto incerte. L’azienda non è andata malissimo, grazie anche a una gestione accorta, ma i risultati sono certo al di sotto delle aspettative: nel 2022 e nel 2023 la produzione di acciaio a Terni si è fermata sotto la soglia critica del milione di tonnellate e, nonostante manchino dati ufficiali, sembra che questo sia confermato nel 2024.

continua