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Il 22 marzo il Teatro dei burattini Carlo Colla rappresenterà Pinocchio al Cucinelli di Solomeo. In occasione dello spettacolo che si terrà nel pomeriggio (ore 17,30), Sandro Allegrini racconta ai nostri lettori la traduzione in perugino che fece e che venne rappresentata per la prima volta al Morlacchi nel 2014. Fu un vero successo, tantochè andò in trasferta e piacque persino ad Umberto Eco.

di Sandro Allegrini

Correva l’anno 2013 quando, per i buoni uffici della scrittrice e cantante Simona Esposito, ebbi a conoscere l’onorevole Monica Baldi, Presidente di Pinocchioworld e dell’Associazione culturale Pinocchio di Carlo Lorenzini. In questa veste, informata circa l’attività svolta dall’Accademia del Dónca – da me fondata nel 2006 insieme a Walter Pilini e col convinto appoggio dell’allora assessore comunale alla cultura Andrea Cernicchi – mi chiese se fossi disponibile a porre mano alla versione del Pinocchio in lingua perugina.
Il lavoro mi impegnò per un anno e ne uscì il Pinocchio m perugino, edito per i tipi di Morlacchi nel 2014. Un progetto editoriale composito che comprende la presentazione di Andrea Cernicchi, allora presidente del CIDAC (Associazione città d’Arte e di Cultura italiane), una nota della stessa Monica Baldi (“Un nuovo Pinocchio sulla scena dei dialetti italiani”), un commento del sociologo Roberto Segatori (“Un Pinocchio ch arvive”) e una premessa del professor Claudio Brancaleoni, Bangor University (UK).
La strepitosa copertina (“Trasvolata perugina di Pinocchio in groppa al Grifo”) e i disegni originali all’interno discendono da una collaborazione con Claudio Ferracci, fondatore della perugina Biblioteca delle Nuvole.
Nella traduzione dovetti attenermi rigorosamente al testo ufficiale, parola per parola, nella struttura coi sommarietti per capitolo e perfino nell’interpunzione. Per la trascrizione grafica della lingua perugina, utilizzai quella sancita dal Dónca, eliminando segni diacritici superflui e adottando l’ipercorrezione solo quando necessaria ai fini dell’opportuna disambiguazione.
Poco dopo la pubblicazione, ricevetti una telefonata da una signora che si qualificò come direttrice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e che m’invitava a presentare il libro “che era piaciuto a Umberto Eco”. Risposi frettolosamente, pensando ad uno scherzo. Si trattava invece di un invito reale.
Tanto che ci muovemmo, armi e bagagli, insieme all’editore Gianluca Galli, per l’evento presentazione alla maestosa Sala Galileo (foto), con un pubblico internazionale, dato il convegno in atto a tema pinocchiesco.
Oltre a presentare il volume, demmo un saggio teatrale davanti a un pubblico numeroso e interessato. Anche se, data la provenienza internazionale della platea, dubito che abbiano capito una sola parola espressa nella lingua del Grifo.
Si proposero in scena gli attori Valentina Chiatti (Fata Turchina), Gianfranco Zampetti (Pinocchio), Leandro Corbucci (Lucignolo, Magnafoco e animali), Fausta Bennati (personaggi vari).
A seguito di questa performance, nacque una compagnia di giro che debuttò in piazzetta Podiani di Palazzo Della Penna (indimenticabile il Magnafoco dell’artista Giuseppe Fioroni, con fisarmonica e costumi di scena, realizzati da mia moglie Rita Paglioni). Ricordo peraltro che il sipario, montato nelle varie rappresentazioni, era opera dello stesso Fioroni, figura di artista internazionale.
Numerose le presentazioni dell’opera in ambito regionale e incontri con le scuole di vario ordine e grado. Eventi realizzati in collaborazione con Comuni, Pro Loco, Associazioni socio-culturali. L’opera ha avuto ampia diffusione ed è tuttora richiesta “nell’universo mondo”, soprattutto da parte di collezionisti. Ma è stata anche apprezzata da pinocchiofili nostrani, come Benigni, e i peruginissimi Enrico Vaime e Filippo Timi.
Quello che ho imparato da questo lavoro è stata la constatazione che quest’opera va (ri)scoperta da grandi, per intercettarne la valenza formativa e le riflessioni esistenziali. L’occasione mi ha anche spinto a voltarmi indietro per vedere il burattino-bambino che sono stato e che non mi capita più d’incontrare per le strade del mondo. Se non riscoprendolo negli occhi dei miei nipoti ai quali, nell’esergo, ho augurato di crescere, riuscendo a mantenersi bambini. Per tutta la vita.
Ma una cosa che ho appreso sul piano culturale risiede nel fatto che è capitato a me, e credo a molti altri, di scoprirsi ignoranti del testo vero, integrale. Avendone letto estratti più o meno raffazzonati, sia in termini di contenuti che sul piano linguistico, facendo torto all’elegante eloquio toscano che lo governa.
Dalla conoscenza completa dell’opera ho anche avuto modo di scoprire che sono veramente troppe le bugie sul burattino più bugiardo del mondo. E ne ho fatto materia di una conversazione, proposta in numerosi contesti e che, se del caso, mi ripropongo di sottoporre all’attenzione dei lettori di questa rivista.
Come anche ho cercato di mettere sotto la lente la figura di Carlo Lorenzini sul cui conto si dicono cose spesso faziose e contraddittorie.