Maria Grazia Marchetti Lungarotti, Il Museo del Vino a Torgiano. Storia di un’idea e di un’opera, Volumnia editrice, Perugia 2024
di Ruggero Ranieri
Spesso diamo per scontate esperienze eccezionali con cui siamo venuti in contatto, magari abbiamo anche visitato con qualche curiosità, ma il cui senso e il valore più profondo ci è sfuggito.
Questo libro non è una guida al Museo del Vino di Torgiano: di guide e cataloghi di quel museo, che ha compiuto da poco 50 anni, ne esistono già: l’ultimo molto bello di pochi anni fa con belle illustrazioni si chiama MUVIT MOO. I Musei della Fondazione Lungarotti a Torgiano. Accanto al Museo del Vino, infatti, nel 2000, è nato il Museo dell’Olio e dell’Olivo, sempre all’interno delle mura medioevali di Torgiano.
Nel 1986 era nata la Fondazione Lungarotti che, promuovendo i Musei, ha sviluppato un’intensa attività di mostre, di pubblicazioni, di iniziative anche internazionali. Il Museo del Vino in particolare espone circa 3000 oggetti in 20 sale in un affascinante percorso che parte da beni archeologici, tocca il tema dei mestieri del vino, si concentra su una ricca produzione ceramica ordinata come una tripartizione, vino come alimento, come medicamento e come mito; infine espone opere contemporanee, incisioni, ex libris, editoria antiquaria. Da non dimenticare la saletta che mostra 100 ferri da cialda di tutte le epoche e tipologie.
Ripeto queste cose, peraltro abbastanza note, per evidenziare ancora di più l’importanza di questa presenza nel nostro territorio. Fin qui tutto bene: un museo privato, legato in qualche modo a un’azienda vitivinicola, ma che pone il vino al centro di un itinerario di storia, di cultura materiale, di tante arti maggiori e minori. In realtà, come spiega bene Maria Grazia Lungarotti, in questo saggio, che è sia una biografia intellettuale, sia una guida concettuale al museo, il nome Museo del Vino è riduttivo. Si tratta, infatti, di un progetto che lavora sulle connessioni fra vino e storia, vino e arte, vino e cultura materiale, proponendo un approccio a vasto raggio estremamente complesso e ambizioso. Un museo interdisciplinare, quindi, ancora oggi innovativo nella concezione ma, pensate, quanto innovativo fosse quando fu ideato e realizzato negli anni ’60 e ’70 del Novecento.
Qui sta l’importanza e la novità di questo libro, che ci porta in modo discreto, ma con grande chiarezza e sincerità intellettuale, nella cabina di regia del museo, e nella personalità di chi lo ha concepito, voluto e curato per oltre un cinquantennio. Parliamo di una donna, Maria Grazia Lungarotti, che concepì il progetto insieme al marito Giorgio in tempi lontani, quando pochi ancora pensavano al vino, almeno in Umbria, come una coltura specializzata di eccellenza, e ancora meno potevano concepire di un museo che avesse l’ambizione di elevare una materia ritenuta così settoriale e minore al livello di una proposta culturale di eccellenza al pari di pinacoteche, gallerie, collezioni private, ecc.
Ci volevano diversi ingredienti: la capacità imprenditoriale di Giorgio Lungarotti che nei primi anni ’60 aveva trasformato la sua azienda agricola in una monocultura della vite elevando la qualità del vino fino a ottenere, nel 1968, il riconoscimento DOC (di origine controllata) tra i primi in Italia; la passione per la ricerca, il gusto per il bello e l’intuizione museologia di sua moglie Maria Grazia, formatasi come storica dell’arte, poi gradualmente trasformatasi in esperta ricercatrice, importante collezionista e regista di originali allestimenti.
Il libro ci riporta agli anni ’60 quando, è vero che esistevano già alcuni studi antropologici dedicati alla cultura materiale, soprattutto in Francia, ma anche in Italia e basti ricordare le figure di Andrea Emiliani, o di Sergio Anselmi, che crea presso Senigallia il Museo di Storia della Mezzadria, o gli studi antropologici di Tullio e Anita Seppilli. Tuttavia la visione del museo rimaneva accademica ed elitaria, non solo nelle università, ma anche nelle soprintendenze e offriva non poche resistenze all’irrompere di un interesse centrato sulla cultura materiale. Maria Grazia, anche in questo, seppe collegarsi ai primi fermenti che maturavano all’interno dell’ICOM (International Council of Museums), che lanciava in Francia il concetto di ecomuseo: infatti è una delle prime socie ICOM italiane. A questo si può aggiungere un altro aspetto, che sono in grado di apprezzare particolarmente, e cioè quanto sia difficile per un privato, in un ambiente profondamente dominato dal dirigismo e dallo statalismo, come quello italiano e umbro, proporsi come soggetto attivo in campo culturale senza soggezione e con ambizioni di operare a tutto campo. Tralascio, quindi, la cronaca delle difficoltà incontrate dalla Lungarotti all’inizio della sua impresa e poi gradualmente aggirate e sconfitte dal successo della sua iniziativa. Oggi il concetto di museo da lei proposto nel 1974 ha, si può dire, letteralmente sfondato. Sorgono musei di tutti i tipi: della canapa, del legno, delle più varie attività economiche, mentre, in particolare, l’associazione fra vino e cultura non è solo accettata, ma attivamente ricercata, messa al centro di valorizzazioni territoriali e di progetti culturali.
Il Museo di Torgiano, tuttavia, forse per essere stato il primo in Italia del suo genere, forse per la tenacia e il lungo percorso della sua creatrice, conserva qualche elemento specifico di eccellenza: il libro ci aiuta a metterlo a fuoco. Non si tratta infatti semplicemente di un museo del territorio, per quanto, chi lo visita, troverà molti riferimenti alla valle umbra, e alla sua esperienza vitivinicola: vecchi mestieri, arnesi ormai desueti, fotografie ingiallite delle sistemazioni dei vecchi vigneti. L’ambizione è molto più alta e si articola proprio nel proporre il vino e la sua coltivazione come chiave di lettura della civiltà a partire dalle sue origini nel Medio Oriente e poi alla sua diffusione con i commerci lungo le rive del Mediterraneo, tra i greci, i fenici, gli etruschi e i romani e giù giù attraverso il medioevo fino all’età moderna.
L’altro elemento distintivo del museo è la ricchezza e la bellezza dei pezzi esposti: a me, per esempio, ma non credo di essere il solo, affascinano le ceramiche di fattura rinascimentale, come l’“alzata” cinquecentesca del vasaio derutese Giacomo Mancini e, fra i cosiddetti “istoriati”, un bassorilievo in ceramica di Girolamo della Robbia che rappresenta Bacco in una condizione di ebrezza.
Quello che affascina e diverte, inoltre, è il racconto della vicenda collezionistica personale di Maria Grazia Lungarotti, che contiene episodi, incontri fortuiti, coincidenze, colpi di mercato e altri momenti singolari e/o entusiasmanti. L’acquisto di pezzi rari, trovati in luoghi improbabili, ha portato, tra l’altro, l’autrice a contatti umani e professionali dei più svariati. Si troveranno qui nomi e cognomi di artisti, critici, studiosi, quasi tutti molto noti oggi nel panorama nazionale.
Rimane l’immagine di una donna colta e appassionata, ma anche di un’instancabile indagatrice e collezionista che per molti anni ha scorrazzato attraverso l’Europa, e non solo. Vari piani, quindi, si sovrappongono, ma tutti riconducono alla parabola intellettuale e umana di una persona: l’ambizione di costruire qualcosa dal niente, lo studio e la ricerca indefessi e prolungati, la vita sociale all’interno di un élite colta, tutto messo al servizio di un progetto collettivo.
I Musei Lungarotti rimangono oggi un’eccellenza del territorio. Dovranno, è chiaro, nel futuro, proseguire la traiettoria virtuosa della loro fondatrice, esplorando e innovando ancora. Intanto dobbiamo inchinarci a un’esperienza che travalica di molto i confini della nostra realtà umbra e di cui questo libro ci offre una preziosa chiave interpretativa.