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di Francesco Menichetti*

Può un ospedale che svolge attività assistenziale dedicarsi anche ad attività di ricerca? 

Può un medico ospedaliero, oltreché curare il suo aggiornamento e dedicarsi all’assistenza ai pazienti, svolgere anche attività di ricerca, senza lasciare tale compito esclusivamente al medico universitario?

La risposta è: non solo si può fare, ma si deve fare.

“Un ospedale senza ricerca invecchia in cinque anni”, così ricordava il prof Albano Del Favero, uno dei pionieri del rilancio della ricerca clinica in Italia a partire dagli anni 80 e, tra i miei maestri, quello che più lucidamente aveva colto la necessità di addestrare e crescere una nuova figura unitaria e completa di medico, che sapesse integrare studio, ricerca ed assistenza, tre elementi intimamente intrecciati, quelli che garantiscono la preparazione del professionista e l’efficacia dei suoi interventi e nel contempo contribuiscono al progresso delle conoscenze ed all’ammodernamento degli interventi diagnostici e terapeutici. 

E’ infatti solo attraverso la ricerca clinica applicata (sperimentazioni cliniche controllate) e la ricerca traslazionale (dal laboratorio al letto del paziente), che le conoscenze progrediscono, che si validano o si negano le ipotesi nate in laboratorio, oppure che si dimostra se il nuovo trattamento A è migliore del vecchio trattamento B, per quella data patologia.

Solo così il paziente è messo nelle condizioni di ricevere le cure migliori e più aggiornate ed il livello qualitativo dell’ospedale rimane alto e non cala.  

A lungo ci siamo battuti, da medici ospedalieri prima, da docenti universitari poi, affinché non persistesse la distinzione manichea tra medici ospedalieri e medici universitari, ma si costruissero, con pazienza e determinazione, ospedali d’insegnamento e di ricerca, con figure professionali, che seppure distinte, fossero impegnate in compiti integrati.

  E’ ovvio che l’attuale prevalente modello delle aziende ospedaliere che ospitano istituti clinici universitari, sia largamente superato, mancando quella integrazione necessaria: ospedale da una parte, università dall’altra, con lo strumento delle convenzioni, stipulate dalle Aziende Ospedaliere con l’Università, che troppo spesso si riduce ad un mercimonio spartitorio di primariati e servizi, ora a direzione ospedaliera ora universitaria, spesso producendo inutili doppioni, perdendo di vista un disegno complessivo, gli obiettivi da perseguire ed a volte anche in efficacia ed efficienza.

Questa nuova figura unitaria e complessiva di medico deve essere il frutto dell’impegno prioritario dell’Università, che dovrebbe da un lato formarlo attraverso un corso di studi moderno ed integrato, dall’altro, tramite la stipula di convenzioni intelligenti, contribuendo a creare quegli ospedali di insegnamento e di ricerca che inevitabilmente diventano anche riferimento per la qualità dell’assistenza. 

La Facoltà Medica e le altre Facoltà e Scuole che formano gli operatori sanitari (a cominciare dalla laurea infermierisitica) vanno ripensate in modo armonico, avendo questi precisi obiettivi.

L’Università è anche chiamata a corrispondere alla necessità di finanziare la ricerca. Compito arduo da perseguire con risorse limitate, ma indispensabile se non si voglia abbandonare la ricerca accademica e lasciarla esclusivamente nelle mani dell’industria farmaceutica.

Quando a metà degli anni 80 cominciai a dedicarmi alla ricerca clinica nel campo della terapia di supporto del paziente onco-ematologico, si poteva ancora contare su di un rapporto paritario tra ricercatore e azienda farmaceutica: noi a proporre il disegno dello studio, loro a finanziarla. 

Da tempo lo scenario è cambiato, lo spazio per la ricerca clinica indipendente si è progressivamente ristretto, ed i ricercatori di oggi conducono studi commissionati dall’industria farmaceutica, specie studi registrativi di nuovi farmaci.  

Tutto ciò non è certo da demonizzare o rifiutare pregiudizialmente, ma la ricerca clinica indipendente dovrebbe poter sopravvivere ricevendo fondi istituzionali adeguati. 

Fondi PNRR: una grande occasione di finanziamento della ricerca sanitaria 

 

Lo scenario potrebbe cambiare grazie ai fondi dedicati dal PNRR alla ricerca sanitaria, se saremo in grado di utilizzarli correttamente anche in Italia

un paese che ha fin qui mostrato grande qualità nella produzione scientifica.

Il PNRR mette infatti a disposizione 524,14 Milioni di euro attraverso la “Missione 6-Salute-Innovazione, Ricerca e Digitalizzazione del SSN” per la promozione e il rafforzamento della ricerca scientifica biomedica mediante il trasferimento tecnologico tra ricerca e imprese. 

Tali stanziamenti potrebbero essere decisivi, se funzioneranno le collaborazioni tra soggetti pubblici e tra questi e i privati, e si potrà innescare un circuito virtuoso con ricadute positive nella generazione e distribuzione di nuova ricchezza.

L’obiettivo è finanziare tre tipologie di interventi: programmi di ricerca o progetti nel campo delle malattie rare e dei tumori rari, per rafforzare la capacità di risposta dei centri di eccellenza presenti in Italia e modelli innovativi che migliorino la qualità complessiva della presa in carico; progetti di ricerca su fattori di rischio e prevenzione per le malattie croniche non trasmissibili, ad alto impatto sui sistemi sanitari e socio-assistenziali; infine progetti mirati a colmare il gap tra ricerca e industria, che si crea nell’intervallo tra la fase della scoperta e quella della sua messa a terra.

Oltre a queste misure, ci sono poi i fondi della “Missione 4-Istruzione e ricerca, Componente 2-Dalla ricerca all’impresa” che puntano a rafforzare la diffusione di modelli innovativi per la ricerca di base e applicata condotta in sinergia tra università e imprese, nonché a sostenere i processi di innovazione e trasferimento tecnologico. 

Tra le misure del PNRR già realizzate, con uno stanziamento di 1,6 Miliardi di euro, vi è invece la nascita dei cinque centri nazionali che intendono favorire le aggregazioni di università, di enti e organismi pubblici e privati di ricerca, oltre che di imprese distribuite sull’intero territorio nazionale, con una struttura di governo di tipo hub & spoke, in cui la prima componente svolge attività di gestione e coordinamento e le altre quelle di ricerca. 

Tra i temi oggetto di studio, le terapie geniche e i farmaci con tecnologia a RNA, saliti alla ribalta con i vaccini anti-Covid.

Secondo rilevazioni dell’OCSE, l’Italia investe in ricerca e sviluppo meno della media europea (1,4% del Pil contro il 2,1%), ciononostante supera la media continentale per quota di pubblicazioni scientifiche, che rientrano tra il 10% di quelle più citate a livello mondiale (siamo oltre l’11% contro il 9,9% della media Ue). 

La qualità tra i ricercatori non manca quindi, piuttosto sono carenti gli strumenti a loro disposizione.

L’Italia è più debole di altri Paesi non solo in termini d’investimenti, ma anche per numero di ricercatori: ce ne sono 6,3 ogni mille occupati, contro l’8,9 della media UE e OCSE.  

La ricerca sanitaria pubblica è finanziata con le risorse iscritte nel bilancio del Ministero della Salute, destinate a supportare le strutture del SSN, tra cui le aziende sanitarie e ospedaliere e gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS).

Questi ultimi sono oggetto della recente riforma che ha l’obiettivo di rafforzare il rapporto tra ricerca, innovazione e cure sanitarie, attraverso la revisione e l’aggiornamento del loro assetto regolamentare e del regime giuridico, affinché gli IRCCS diventino un propulsore della ricerca integrata con le altre strutture del SSN.

L’esperienza pandemica spinge verso la creazione di reti clinico-transnazionali di eccellenza, in grado di mettere in comune le tecnologie disponibili e le competenze esistenti in Italia, e di creare interventi sui quali concentrare l’attenzione di enti pubblici e privati che operino in sinergia per innovare, sviluppare e creare posti di lavoro altamente qualificati. 

Sono previste due macro-azioni, una relativa alla realizzazione di una rete di centri di trasferimento tecnologico e l’altra focalizzata al rafforzamento e allo sviluppo qualitativo e quantitativo di hub life-science (ovvero dedicati a nuove terapie mediche, in particolare quelle nel campo della medicina personalizzata e di precisione, alla diagnostica avanzata, e alla salute digitale, per la medicina di prossimità), ai quali si affianca l’ hub anti-pandemia di Siena. 

Anche in questo caso le risorse del PNRR saranno fondamentali per la realizzazione del piano, anche se forese ancora non sufficienti. 

Come già si è visto in passato, al di là dei fondi, nella messa a terra dei progetti entrano in gioco dinamiche come la burocrazia e le competenze dei diversi soggetti pubblici coinvolti, che spesso rischiano di compromettere i risultati. 

In presenza di tali risorse economiche eccezionali, sarebbe grave perdere l’occasione di ammodernare strutturalmente il sistema della ricerca scientifica pubblica.

Si deve infine citare il concetto dell’approccio “One-Health”: è necessario integrare la difesa della salute umana con quella animale e quella dell’ecosistema.  Questo approccio è oggi condiviso a livello mondiale, e gran parte dei paesi cercano di metterlo in pratica: è ovvio che servono politiche integrate ed armoniche che ad es. contrastino gli allevamenti intensivi degli animali da consumo, spesso responsabili del salto di specie dall’animale all’uomo di virus che diventano per noi aggressivi (esempi pratici: influenza aviaria e suina, lo stesso COVID) e dia finalmente alla difesa e riqualificazione del territorio quella concretezza e quelle risorse di cui ha bisogno, per evitare o limitare fenomeni alluvionali o gravi danni sismici od inquinamenti di vario genere, che progressivamente intaccano il nostro territorio, mettendo sempre più a rischio la nostra sopravvivenza.

E’ questa una delle lezioni della recente pandemia di COVID, largamente incompresa e troppo frettolosamente archiviata.

  Sorprendente e poco comprensibile, a tale proposito, l’astensione italiana dalla risoluzione OMS sul Piano Pandemico, sottoscritto da 124 paesi nel mondo, astensione motivata per “ribadire la sovranità nazionale”, peraltro ampiamente garantita dall’accordo stesso.

  Ci vuole quindi una visione complessiva ed una buona politica, in grado di realizzare obiettivi precisi e di comune interesse, superando le resistenze lobbistiche laddove necessario. 

Ed è proprio questo il punto cruciale: per incentivare la ricerca in sanità occorre superare visioni faziose e logiche di bottega con uno sforzo unitario nell’interesse comune della collettività.

L’Umbria ha una grande occasione, potendo disporre di una nuova Giunta Regionale, fresca di elezione, sensibile a tali tematiche e con la necessaria determinazione politica per tentare di affrontarle.

Allo stesso tempo, siamo alla vigilia dell’elezione del nuovo Rettore dell’Università di Perugia, e certo auspichiamo che, chiunque prevalga, si dimostri sensibile ed all’altezza delle sfide che lo attendono.

Il rilancio della nostra Regione passa anche attraverso questi ineluttabili temi, da affrontare in modo congiunto con l’Università, concentrandosi sull’obiettivo di tutelare al meglio la salute dei nostri cittadini, anche attraverso il sostegno alla ricerca.

Ai cittadini-finanziatori, interessa una sanità efficace ed efficiente, accessibile a tutti ed equa, aggiornata alle evidenze scientifiche, capace di fornire servizi appropriati e di qualità e che c’è quando serve.

Noi siamo fiduciosi, con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.  

*Direttore sanitario, Casa di cura Liotti, Perugia già professore ordinario di Malattie infettive, Università di Pisa