di Carlo Alberto Bucci
Non c’è da stupirsi che ci sia la mano, anzi: più mani, al centro di Chords (Accordi), l’ultima opera di Adrian Paci presentata venerdì 6 giugno, in prima assoluta nell’ambito del festival “Narni città teatro”. La stretta di mano messa in scena nel cortile della chiesa di Sant’Agostino è sì un segno di saluto, ma focalizza l’attenzione degli spettatori – quanti hanno assistito alla performance e gli altri che in seguito guarderanno le riprese video e le foto documentarie – sul potere e sulla forza delle dita tese nella stretta del palmo dell’altro. La mano, d’altro canto, è, insieme all’occhio, l’organo fondamentale per l’attività del pittore: a partire dalle impronte sulle rocce delle pitture rupestri della preistoria (come a Cuevas de las Manos, a Santa Cruz, in Argentina) fino ad oggi, ad esempio nei dipinti del 2023 di Adrian Paci, gli oli su tela delle serie Visitors e Dancers and Mourners proposti dalla sua galleria milanese, la kauffmann-repetto.
Autore che ha già nel cognome ha scritto il rifiuto delle guerre, e nella sua esistenza di albanese giunto nel 1997 in Italia l’attenzione per le storie dei migranti, Adrian Paci è tra i maggiori interpreti dell’arte impegnata, engagé, ma è autore che si è posto al riparo da facili sentimentalismi, dai colpi ad effetto e, soprattutto, dalle appropriazioni indebite e a buon mercato dei drammi altrui. L’opera che ha pensato e realizzato grazie alla collaborazione di nove persone scelte tra i volontari della cittadina umbra, è un silenzioso, pregnante invito a deporre le armi e a conoscere, attraverso il tatto, l’altro da sé. Ed è, questa messa in scena, il pezzo forte della proposta di Antonella Luzzi, curatrice della sezione arti visive che, per la prima volta, entra nel palinsesto letterario, teatrale e musicale della rassegna di Narni, la cui direzione artistica è nelle mani di Davide Sacco e Francesco Montanari (la sesta edizione è intitolata “Giocare la vita” e si tiene fino a domani, domenica 8 giugno, nel centro storico: info e biglietti su www.narnicittateatro.it).
Se il sipario è caduto su Chords venerdì alle 18.10, un’ora dopo l’inizio della performance sul prato dell’ex convento agostiniano, c’è tempo ancora oggi e domani per seguire e capire la poetica dell’artista nato a Scutari nel 1969 (dal 2000 vive e lavora a Milano) assistendo alla proiezione di altri suoi lavori del passato, dalle 9 di mattina alle 11 di sera (a loop, ci assicurano dall’organizzazione): ossia a Prova (del 2019) all’Auditorium San Domenico; a Vajitojca del 2002 (nella Chiesa di Santa Maria Impensule); e, innanzitutto, a The Encounter, proiettato nella cosiddetta Ala diruta (suggestivo spazio diroccato attaccato alla chiesa di Sant’Agostino) che risale al 2011 e che vedeva Adrian Paci stringere già allora la mano ai cittadini in Scicli, in Sicilia, tutti in fila di fronte alla chiesa di San Bartolomeo.
A sottolineare la tensione formale, direi quasi pittorica, della performance che si è snodata al comando dello stesso Adrian Paci, regista e co-interprete dell’azione a Sant’Agostino, ci sono le figure geometriche che i dieci attori hanno realizzato con i propri corpi disponendosi nel rettangolo verde del chiostro: passandosi in rassegna attraverso il gesto della stretta di mano, il manipolo di attori ha infatti realizzato dieci triangoli in una successione ad incastro e dagli angoli sempre diversi: dai 90 ai pochi gradi di due linee strettissime, quasi attaccate. E questo snodarsi di figure astratte, in una sorta di quadriglia senza musica, è avvenuto in un silenzio assoluto – sia da parte dei dieci attori sia, soprattutto, del pubblico – perfettamente consono al luogo (tra gli affreschi malridotti del chiostro anche quelli della porta che conduceva alla clausura) e a un rito antico, arcaico, eppure ancora valido, attuale, potente. I rintocchi, non voluti ma benvenuti, delle campane della chiesa, hanno accentuato la solennità di questa cerimonia laica, che a tratti ricordava quella funeraria: con i dieci protagonisti – dal giovane barista del caffè principale di Narni al pensionato con cappelletto e visiera, dall’impiegato del Comune di Terni all’attore Gennaro Di Biase (assoldato dopo un’improvvisa defezione) – che hanno ciascuno a suo modo interpretato lo scambio di saluti. E c’è chi si è lanciato in una stretta di mano virile, chi ha scelto un gesto più formale e distaccato, chi invece ha optato per una intensa partecipazione emotiva dello scambio di saluti. Comunque tutti, seguendo Adrian Paci, hanno avuto una compostezza che rifiuta la spettacolarità di tante performance artistiche caratterizzate da movimenti spericolati, corporeità esagitate, gesti affettati. Chapeau.
I protagonisti di Chords – usciti di scena uno alla volta, così come erano entrati, tra gli applausi del pubblico, quindi corsi a riunirsi con Adrian Paci per un aperitivo in piazza dove prendere finalmente la parola – hanno “recitato” la parte senza fronzoli, “copiando” la stretta di mano che l’artista aveva preso da video amatoriali di nozze in Albania (“ma il rito nuziale” può talvolta ricordare “quello di un funerale”, ha affermato l’autore stesso) per Visitors, la sua installazione del 2012 al Maxxi di Roma, uno dei molti musei (come il Pecci di Prato, il Ps1 di New York, il Jeu de Paume di Parigi) in cui l’artista ha allestito personali, oltre ad aver partecipato, con la sua epica dell’esodo, a molte rassegne in tutto in mondo, innanzitutto alla Biennale di Venezia.
Resta da capire perché questo protagonista della scena internazionale abbia scelto per Chords solo uomini. Forse nessuna donna di Narni e dintorni si è candidata per aiutarlo recitando nella performance? O, forse, essendo per lo più maschi coloro i quali impugnano le armi, la stretta di mano come cessazione delle ostilità, in Ucraina come a Gaza, è un invito, rivolto al cosiddetto “sesso forte”, a cessare il fuoco e a lasciar parlare la diplomazia del contatto u-mano.
Adrian Paci – che oggi alle 17 sarà protagonista di un incontro pubblico a Narni intervistato da Antonella Liuzzi e che dall’11 giugno (a settembre inoltrato) sarà in Vaticano con la mostra, a cura di Cristiana Perrella, “No Man in an Island” allo spazio Conciliazione 5 – si è affidato alla sensibilità, alla disponibilità e alla dedizione dei nove altri interpreti del suo progetto artistico e performativo. Allo stesso modo, l’altra proposta legata alle arti visive del festival ha previsto l’intervento dei modelli stessi dell’opera del documentarista e film maker Shafiur Rahman (Liuzzi lo intervista domani, domenica 8 giugno, alle 18). “Oltre quel confine è la mia casa” è lo sguardo, in 15 fotografie esposte nel chiostro dello spazio chiamato Digipass di Narni, sul dramma dei rifugiati Rohingya. Ma scattate durante la pandemia dai profughi stessi nello sterminato campo in Bangladesh, il più grande al mondo di questo tipo, in cui sono stati costretti perché perseguitati dall’esercito birmano. Le foto – già proposte a Lampedusa e in altre città – sono come selfie dall’inferno ma, anche in questo caso, senza falsi patetismi. “Viva Messi!”, foto di Abdul Monaf, ad esempio, apre la mostra e ci offre la felicità irrefrenabile dei ragazzi che idolatrano le stelle del calcio argentino. In uno struggente, sporco e coinvolgente bianco e nero.