Pubblichiamo il primo articolo su come e perchè potrebbe aumentare il fenomeno degli arrivi di massa degli emigrati dall’Africa verso l’Europa. Che fare per ridurne la portata a monte? Quella di seguito è una prima analisi a cui seguiranno altre puntate.
di Tommy Simmons
Una delle grandi incognite del 21° Secolo riguarda il ruolo che svolgerà l’Africa nella storia futura dell’umanità e della Terra. Questo sterminato continente – la cui estensione potrebbe ampiamente ospitare i territori degli Stati Uniti, la Cina, l’India, l’Europa e il Giappone – sta vivendo la crescita demografica più sostenuta del pianeta e si prevede che la sua popolazione passerà dagli attuali 1,3 miliardi di persone a 2,4 miliardi nel 2050 e ben 4,2 miliardi nel 2100. Mentre gran parte del mondo – compresa l’Europa – dovrà sempre più affrontare le problematiche di società con popolazioni decrescenti e crescentemente anziane e fasce demografiche produttive insufficienti, i 54 paesi racchiusi nel continente africano dovranno affrontare un boom di nascite e la gestione della vita di 3 miliardi di nuovi cittadini che dovranno essere nutriti, curati, educati, ospitati, occupati, trasportati, illuminati.
I più ottimisti vedono questa trasformazione del continente come una grande occasione per emulare la crescita economica che hanno vissuto la Cina e l’India – gli attuali due colossi demografici del mondo – nel 20° Secolo, grazie alla più massiccia nuova forza di lavoro della Terra e grazie allo sviluppo di un nuovo mega-mercato per le future industrie continentali. In quest’ottica, in termini geopolitici, il potere contrattuale dell’Africa crescerebbe a dismisura, invertendo secoli di sfruttamento e annunciando una rivalsa nei confronti di un mondo che per secoli l’ha usata come una fonte di schiavi, avorio e risorse minerarie. Sul versante opposto i più pessimisti temono che, partendo da una situazione complessiva di povertà ed effettivo frazionamento geografico, economico e politico, il continente non riuscirà a competere a livello globale e faticherà anche a nutrire questa nuova massa umana. Anche se nessuno può concretamente prevedere come questo futuro evolverà, il fatto resta che le tendenze demografiche attuali ci dicono che è in atto una tale trasformazione del continente che le sue conseguenze avranno un impatto importante anche al di fuori dei suoi confini.
Nel corso dell’ultimo secolo la storia dell’Africa è stata contrassegnata dalla graduale conclusione dei domini colonialisti, dall’assestamento dei suoi nuovi stati indipendenti – fondati però soprattutto su astruse frontiere delineate nelle cancellerie europee -, dal consolidamento delle nuove nazioni, dalla perenne ricerca di assetti politici consoni con identità nazionali sempre in via di una nuova definizione, dalla formazione dei quadri necessari alla gestione dello stato e dalla nascita e graduale crescita di una classe media in grado di stimolare una crescita economica a sostegno di tutta la popolazione. Eppure, tutt’ora, l’Africa continua ad essere il continente più povero del mondo e molte delle sue popolazioni continuano ad aver bisogno di assistenza dall’esterno.
Il sostegno umanitario in Africa e nel mondo ha le sue radici nell’opera iniziale delle missioni la quali, parallelamente all’opera di conversione di popolazioni “pagane”, sin dall’inizio dell’epoca coloniale avviarono programmi di alfabetizzazione e assistenza sanitaria. Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, la formazione delle Nazioni Unite e il concepimento e la ratificazione dei concetti e delle convenzioni sui diritti umani, i programmi di sostegno allo sviluppo economico e sociale dei paesi più poveri sono diventati più strutturati ed ampi e gli organismi dell’ONU (come l’Unicef e la Fao) e le nuove istituzioni finanziarie internazionali (come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) hanno assunto un ruolo centrale negli sforzi per creare un mondo più equo. Attualmente, ogni nazione “abbiente” stanzia una percentuale del proprio bilancio ad attività di cooperazione allo sviluppo e per il finanziamento della risposta alle emergenze planetarie.
Oltre ad essere espressione dell’adesione ai principi sanciti dalle Convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, i finanziamenti a sostegno dello sviluppo internazionale sono naturalmente anche funzionali agli interessi di politica estera dei paesi erogatori. Gli stati colonialisti hanno sempre investito risorse nel miglioramento delle infrastrutture e delle condizioni sociali nei paesi conquistati perché si riteneva che questi investimenti avrebbero generato ulteriori risorse future a favore della “casa madre”; a seguire, durante la Guerra Fredda, i paesi dei due blocchi contrapposti hanno sempre investito risorse negli stati “clienti” per assicurarsi che non passassero dall’altra parte; e tutt’ora gli interessi commerciali, industriali e strategici dei paesi donatori senz’altro continuano ad influenzare le scelte relative ai contributi ai paesi in via di sviluppo. E mentre ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda gli investimenti (e massicci prestiti) fatti nell’ultimo decennio dalla Cina per sviluppare le infrastrutture necessarie per la realizzazione della sua visione di una Nuova Via della Seta, questa realtà si applica alle strategie di ogni paese donatore.
Per quanto riguarda i rapporti attuali dell’Europa con l’Africa relativamente agli aiuti umanitari, uno dei fattori centrali nello sviluppo delle strategie è il controllo dei flussi migratori. A fronte delle recenti percepite “ondate migratorie illegali”, della presa di velocità del boom demografico africano e dei timori di parte dell’opinione pubblica europea di dover far fronte ad una “invasione” che per alcuni rappresenterebbe una minaccia per l’occupazione e per le identità nazionali (fandonie promosse ad arte), i governi europei stentano a definire politiche comuni, sensate e legali. Nella sostanziale assenza di strategie mirate ad integrare in Europa i tanti che tentano di usufruire del fondamentale diritto di asilo che l’Europa promuove a parole, la prima linea di “difesa” del nostro continente è il pagamento di somme cospicue alle bande che si contendono il controllo della Libia affinché tengano sotto controllo le azioni delle bande di trafficanti di esseri umani (aveva iniziato Berlusconi, pagando Gheddafi); e la seconda linea di difesa, che vorrebbero alcuni soprattutto in Italia (e Gran Bretagna) è il controllo dei mari e la negazione del dovere di salvaguardia delle vittime dei naufragi. La questione però non può essere affrontata “a valle”, quando chi cerca scampo o sicurezza o lavoro si trova già alle porte dell’Europa, e nelle capitali del continente si discute di come affrontarla a monte, sostenendo l’Africa a creare lavoro e sicurezza per i suoi cittadini – una sfida che andrebbe ben oltre quella affrontata dagli Stati Uniti col Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa post-bellica.
Sul tavolo dei rapporti intercontinentali, infine, c’è la nodosa nonché spinosa questione dei cambiamenti climatici e dalle compensazioni che i paesi più abbienti ed inquinanti dovrebbero versare a quelli meno abbienti, meno inquinanti e più fragili rispetto agli impatti devastanti dell’aumento delle temperature globali.
Il recente e ben 27° incontro annuale della commissione ONU sui cambiamenti climatici (COP27) non è stato in grado di far progredire l’umanità verso una riduzione delle emissioni che permetterebbe di contenere l’aumento di temperatura globale a 1,5° (è straordinario come dopo 27 anni di discussioni planetarie sul tema, l’umanità riesca a continuare ad incrementare le emissioni invece di ridurle). Per la prima volta però, un gruppo di paesi, col sostegno dell’Unione Europea è riuscito ad ottenere l’impegno di creare un nuovo fondo finanziario per far fronte agli effetti di eventi climatici estremi nei paesi più poveri – come le recenti inondazioni in Pakistan o l’interminabile siccità che sta affliggendo il Corno d’Africa. Questo “fondo di compensazione” (ancora tutto da definire), accompagnato da una nuova flessibilità da parte delle istituzioni finanziarie internazionali a sostegno della diversificazione delle fonti di energia nei paesi più poveri, potrebbe rappresentare un nuovo cuscinetto per i territori più a rischio – ma solo perché, paradossalmente, per i paesi più industrializzati sembrerebbe convenire di risarcire i danni causati dal proprio inquinamento piuttosto che ridurre il proprio inquinamento e dunque limitare i danni, che come conseguenza avranno anche un aumento della spinta migratoria.
Tutto ciò in attesa che la popolazione del continente africano continui a crescere e a produrre e consumare quantità crescenti di energia prodotta soprattutto con fonti non rinnovabili.