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di Ruggero Ranieri
Foto di ©Fabrizio Troccoli

Il futuro del gruppo Arvedi rimane in discussione. Si sta svolgendo proprio in questi giorni una complessa trattativa, che è anche un braccio di ferro, fra la proprietà e il governo e le istituzioni locali rispetto ai costi dell’energia e al finanziamento degli investimenti. Tutto ciò va sotto il nome di Accordo di Programma: se ne parla da tre anni e non si vede una soluzione, anche perché vi si intrecciano, come vedremo, vari fili che corrono lontani da Terni: politiche europee del Green Deal, realizzazione del PNRR, situazione dei mercati internazionali.

AST NEL VORTICE CHE MINACCIA IL SETTORE IN EUROPA

Cerchiamo, intanto, di mettere a fuoco quale è oggi la situazione dell’azienda dopo tre anni circa che fa parte del gruppo Arvedi. La produzione dell’azienda è rimasta al di sotto delle previsioni, non arrivando neppure al milione di tonnellate di acciaio, mentre la capacità produttiva ne permetterebbe un milione e mezzo. Meglio la performance se guardiamo i prodotti finiti, cioè prodotti piani di acciaio inossidabile laminati a freddo, in quanto l’azienda ha preferito importare dall’Asia semi-prodotti per poi rilavorarli, piuttosto che produrli direttamente nella propria acciaieria, una scelta che si giustifica con gli alti costi dell’energia.
Se guardiamo i risultati di bilancio del 2023 (quelli del 2024 non sono ancora disponibili) vediamo che l’AST ha tirato fuori un utile netto di 15,8 milioni, davvero esiguo, mentre il fatturato è stato di 2,3 miliardi di euro e il margine operativo lordo, che è un indicatore di performance abbastanza attendibile, si è attestato sui 95 milioni. Sono risultati non disastrosi, ma poco incoraggianti e mostrano una azienda in galleggiamento. Confortante, se mai, il fatto che il gruppo Arvedi nel suo insieme faccia meglio, ottenendo nel 2023 ricavi per 6 miliardi di euro, un mol di 522 milioni e un risultato netto di 234 milioni.
Il gruppo Arvedi, con sede a Cremona e stabilimenti in varie parti dell’Italia settentrionale, conta nel complesso 6.400 dipendenti e produce e trasforma oltre 5 milioni di tonnellate di prodotti siderurgici, fatturando circa 7 miliardi di euro. Si divide in due grandi compartimenti produttivi, acciaio al carbonio, comunemente detto acciaio, e acciaio inossidabile. Il punto di forza del gruppo sono gli impianti altamente innovativi di Cremona che producono lamiere sottili con impianti di avanguardia, relativamente piccole e flessibili, conquistandosi un posto fra le eccellenze tecnologiche e un ruolo importante nella produzione italiana, vista anche la crisi di Taranto. Il gruppo Arvedi comprende anche società medio-piccole, come l’Ilta Inox specializzata in tubi tondi saldati o la Arinox con uno stabilimento a Sestri Levante, le quali lavorano l’acciaio inossidabile, affiancando l’AST. Il gruppo appare quindi, abbastanza solido, ben posizionato sul mercato.
La Arvedi AST è, a sua volta, una capogruppo. Il Tubificio, che era, nella fase precedente, stato retrocesso a semplice reparto produttivo dell’acciaieria, sotto la gestione Arvedi è stato scorporato ed elevato ad azienda a sé stante. La Società delle Fucine, che produce su grandi commesse, a livello mondiale, quasi sempre legate alla costruzione di centrali nucleari è oggi una divisione autonoma all’interno dell’AST. Si tratta di attività che hanno bisogno di competenze manageriali specifiche. In senso opposto ci si è mossi per quanto riguarda invece i Centri di servizio, che costituiscono una rete commerciale per i prodotti inox diffusi largamente sul territorio nazionale ed estero, spesso da commercializzare in piccoli lotti differenziati, con una clientela (soprattutto quella italiana) volubile e difficile da soddisfare. In questo caso la tendenza à di accentrarli nell’azienda madre, per razionalizzarne meglio le attività. Non va dimenticato infine, che l’Arvedi Ast è ancora partecipata per il 15% dalla ThyssenKrupp.

I dipendenti dell’azienda sono 2.212 (di cui 113 donne), l’1 % sono dirigenti e 5% quadri, gli impiegati sono il 21% impiegati e il resto sono operai. Il numero complessivo non è mutato molto negli ultimi tre anni, accanto ai dipendenti diretti vi sono circa 1.550 addetti che lavorano nelle ditte appaltatrici, molte delle quali sono piccolissime, mentre una mezza dozzina conta dai 100 ai 150 dipendenti. La crescita di questo indotto era stata molto forte durante l’ultima fase della ThyssenKrupp, mentre Arvedi ha preferito internalizzare alcune funzioni aziendali. In questo senso le promesse fatte da Arvedi all’atto dell’acquisto sono state mantenute: l’azienda non si serve più di lavoratori su somministrazione. Meno positivo, invece, il fatto che l’andamento altalenante dei mercati e della produzione abbia incentivato il ricorso alla cassa integrazione: durante il periodo natalizio 2023-24 è durata tre settimane, per oltre 2.000 dipendenti, praticamente una chiusura totale e vi sono state altre pause fino ad oggi.
Al suo arrivo Arvedi esprimeva un giudizio abbastanza severo sul management precedente e ha sostituito gran parte dei dirigenti a partire dall’amministratore delegato Massimiliano Burelli. Ha introdotto, invece, una gestione centralizzata secondo il modello di una azienda familiare, e anzi per certi aspetti personale, in quanto legata alla grande personalità del fondatore Giovanni Arvedi. Un certo riequilibrio vi è stato con la nomina a amministratore delegato di Dimitri Menecali al posto di Mario Arvedi Caldonazzo, nipote del fondatore, passato alla vicepresidenza del Gruppo. Menecali, nato nel 1973, è un giovane ingegnere ternano formatosi alla scuola del prof. Kenny, entrato come responsabile di linea ha fatto tutta la trafila interna, fino a venire recentemente selezionato dall’Arvedi come numero uno. Di fatto, però, la sua autonomia sembra essere relativa in quando le scelte strategiche vengono ancora prese a Cremona. Terni non è più, come in passato, distaccamento, qualche volta trascurato e riottoso, ma pur sempre protagonista del grande conglomerato IRI-Finsider, né è provincia distaccata di un grande impero a guida tedesca, con ambizioni e strategie globali. Gli orizzonti sono oggi più ristretti, sia pure all’interno di un gruppo che si fa rispettare per ambizioni tecnologiche e strategie di crescita.
Arriviamo, per ultimo al capitolo, quello decisivo, per il futuro dell’AST: gli investimenti. Seguirne lo sviluppo attraverso il balletto delle cifre presentate, poi modificate, può risultare frustrante. Se parliamo dell’intero progetto di investimento su vari anni, destinato a aumentare le capacità produttive e procedere alla decarbonizzazione ci si aggira sui 900 milioni di euro, una parte dei quali recuperato attraverso finanziamenti europei, e, c’è da dire, una parte, non certo maggioritaria, già stanziata e messa a terra in questi ultimi tre anni.
Interessante è seguire le linee strategiche e come sono andate mutando. Nel 2022, all’arrivo di Arvedi, con la fine della pandemia e i prezzi alti si era ragionato in grande. Si pensava, in primo luogo, di aumentare la produzione, sfruttando a fondo i grandi forni elettrici dell’azienda per arrivare ben oltre il milione di tonnellate (la capacità teorica si situa poco sotto 1,5 mta) e quindi sembrava prioritario un nuovo, ulteriore, forno di riscaldo per bramme (le bramme sono il semilavorato, anello di congiunzione fra la parte dell’acciaio fuso e i prodotti finali, e cioè lamiere a caldo, prima, e a freddo, poi). Il lavoro su questo impianto, previsto con alimentazione combinata a idrogeno e metano, è in corso ma la sua ultimazione è prevista nel 2026. È stato invece anticipato e completato il secondo investimento previsto, e cioè un nuovo laminatoio a freddo del tipo Sendzimir e una nuova linea per il perfezionamento dei prodotti finiti. Inoltre si è dato seguito, in combinazione con una azienda finlandese, a una nuova rampa scorie, impianto per trattare le scorie prodotte dalle lavorazioni siderurgiche, da riutilizzare, poi, nelle pavimentazioni stradali – esempio di economia circolare che sembra dare i suoi frutti. Rimandato, invece, il capitolo degli acciai magnetici, che si voleva riprendere con l’allestimento di un centro finitore.
Cosa si può leggere in queste scelte? L’aver accelerato sul fronte della laminazione a freddo è in linea con una strategia con l’intenzione di importare maggiori quantità di pezzi semifiniti e rilavorarli a Terni, risparmiando così sui costi dell’energia e sfruttando un mercato di importazione a prezzi stracciati soprattutto dall’Asia. Questo naturalmente preoccupa non poco i sindacati, in quanto almeno a lungo termine non può che portare a un declino dell’area a caldo, che è quella in cui lavorano la maggior parte dei dipendenti. Il nodo per l’azienda sono i costi energetici. Il nuovo forno di cui si parla, che si affiancherebbe agli altri esistenti, infatti, nonostante si tratti di un forno aggiornato con notevole risparmio di metano, è comunque soggetto ad alti costi energetici. Infine, nel caso del magnetico, l’evoluzione dei consumi è strettamente legata alla crescita delle auto elettriche, oggi in una situazione di stallo.
Torniamo quindi al nodo che appare oggi centrale, e su cui torneremo, quello dell’Accordo di Programma che Arvedi richiede come premessa per portare a termine il suo progetto aziendale. L’accordo comporta il concorso del governo, della Regione Umbria, degli enti locali e, se pur non diretti firmatari, dei sindacati. Riguarda molti capitoli, di cui però il principale è la richiesta di Arvedi di avere forniture energetiche a costi comparabili con quelli della concorrenza europea (quelli americani o asiatici essendo fuori portata). Su questo capitolo si gioca il futuro, forse addirittura la sopravvivenza dell’azienda.