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di Francesco Scotti*

Riprendendo le considerazioni di Gabriella Mecucci su Passaggi, il 17 marzo u.s., “Caso Prospero, ovvero la morte che diventa virtuale”, non resta che ribadire che questo episodio si presenta non solo come la manifestazione di una modalità inattesa in cui una morte misteriosa va a troncare una giovane vita, ma può diventare l’occasione per trovare una chiave di lettura dei cambiamenti radicali che stanno avvenendo (si potrebbe dire sotto i nostri occhi, se non dovessimo aggiungere che spesso sono occhi ciechi), nel modo in cui si connettono oggi la comunicazione interumana e le relazioni con persone nella vita reale. 

A parte la necessità di far chiarezza su molte questioni, come affermava una famosa conduttrice televisiva in una trasmissione recente, non si sa bene di quali aspetti di questa tragedia sia più importante discutere, una volta superato il rammarico della perdita violenta di una giovane vita: se del suicidio come conclusione inattesa di una vita comunque misteriosa; se ci sia stata l’istigazione al suicidio o esso sia stato favorito involontariamente mediante informazioni; se si tratti di un suicidio o di un omicidio, come ha sostenuto il padre; se dietro vi sia una famiglia normale o una famiglia disattenta; se ci sia una vita dedicata allo studio o la copertura di traffici segreti come affermano alcuni giornali. Resta una vicenda opaca che richiede nuove informazioni, alcune delle quali stanno lentamente filtrando. Ma soprattutto dovrebbe essere considerata l’apertura di un sipario su un mondo chiuso, quasi impenetrabile, che esemplifica perfettamente l’idea di marginalità. 

È inevitabile che si rifletta sul suicidio, se sia da considerare una scelta sempre patologica; se sia possibile, o fino a che punto sia possibile, un’influenza tale su un ragazzo da indurlo a questo gesto; se dobbiamo considerarla come una disgustosa manifestazione di disumanità di chi è interessato solo a far male a qualcuno, o dobbiamo pensare al risultato di una convergenza di strade sbagliate che hanno portato i protagonisti, tutti quelli già individuati e gli altri che vengono ricercati, al disastro totale.

Non è un caso che l’art. 580 del Codice Penale sia uno dei più chiacchierati della legge italiana. Esso metteva sullo stesso piano l’istigazione e l’aiuto al suicidio. È su questo ultimo elemento che è intervenuta la Corte costituzionale per dichiararlo incostituzionale. Ci si deve chiedere anche quanto l’istigazione al suicidio rientri nell’ambito di competenza del defunto art. 603 del CP che prevedeva il reato di plagio e che fu dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale nel 1981.

Questo dico non per sfoggiare una competenza giuridica che non ho ma per rappresentare la complessità della situazione di cui stiamo parlando. Oltre a sottolineare il fatto che il suicida ha incontrato qualcuno che l’ha aiutato a realizzare il suo proposito bisognerebbe anche chiedersi perché non abbia incontrato nessuno capace di dissuaderlo dal farlo. Da questa domanda, forse un po’ retorica, scaturirebbe la necessità di interrogarsi perché nessuno faccia qualcosa per porre rimedio alla sofferenza di ragazzi disperati, per tirare fuori dall’isolamento giovani abbandonati a se stessi.

È solo a questo punto che giungiamo a riflettere sulle circostanze per le quali l’evento di cui parliamo ha provocato un’eco inabituale di un episodio, il suicidio di un ragazzo, che, quando si verifica, e ciò avviene più spesso di quanto immaginiamo, non suscita molta attenzione: l’attenzione si è concentrata sul fatto che l’ultimo pezzo di vita di questo ragazzo sia strettamente legato all’uso della rete, se è vero che i messaggi transitati attraverso di essa hanno determinato il suo destino. 

Si parla, e non si parlerà mai abbastanza, dei rischi derivanti dalla troppo facile accessibilità alla rete. In questo caso la rete è quella in cui si resta impigliati e, si dice anche, irretiti. Qualcuno si accorge solo in queste circostanze che il mondo sta cambiando e propone di normalizzare la vita ponendo limiti all’uso delle tecnologie di comunicazione. Certo abbiamo a disposizione un’arma pericolosa e bisognerebbe progettarne un uso prudente. Ma non andremo da nessuna parte se non ci interroghiamo sulle caratteristiche del mondo parallelo che si è creato grazie alla tecnologia; e a quali bisogni, non altrimenti soddisfatti, esse rispondono. In altre parole sono la causa o l’effetto di un malessere esistenziale? Sarebbe facile elencare tutti i fattori che, in un mondo sempre più frammentato e provvisorio, portano i giovani a cancellare una parte della propria esperienza che provoca dolore. Si può dire però che il rimedio è peggiore del male.

Nelle comunicazioni in rete non vi sono più limiti alle fantasie e alle disinibizioni e ciò grazie all’assenza di un interlocutore reale. Non c’è più nessuna possibilità di sapere se il nostro interlocutore è un essere umano o un assistente vocale. Tutto è verbale e nulla è corporeo. Chi comunica non si sente responsabile di quello che comunica e non c’è posto per una valutazione morale. Davanti vi è una immagine, non una persona. Tutto è un gioco e viene quindi considerato reversibile, non vi è più la freccia del tempo. 

Allora vietiamo questa droga! Ricordiamo però che durante quell’esperimento naturale che è stata l’epidemia di Covid, molti ragazzi sono sopravvissuti grazie proprio alla facilità di inventarsi una forma alternativa di rapporto, usando gli strumenti di comunicazione che avevano a disposizione, senza bisogno di uscire di casa. 

Che fare? Non lo so proprio ma sicuramente possiamo immaginare che sarebbe compito degli adulti la costruzione di un mondo nel quale vale la pena di vivere e far vivere. Compito quasi impossibile? Ma intanto gli adulti potrebbero dare il buon esempio: combattendo le fake-news e facendo circolare buone (=vere) notizie.

*Francesco Scotti, psichiatra