Salta al contenuto principale

Foto ©Hayley Murray 

Pochi giorni fa, il 15 e 16 dicembre, la Regione Umbria ha tenuto un incontro partecipativo, nella sala del consiglio provinciale di Perugia, dal titolo “La Salute mentale globale nella costruzione del piano socio-sanitario regionale”. La proposta di Pssr verrà resa pubblica a breve nella sua interezza, dopo un quindicennio di attesa. La Regione dà un segnale molto forte aprendo la partecipazione su questo atto di programmazione sanitaria a partire dalla salute mentale. 

In primo luogo perché in questo 2025 si celebrano i 60 anni della chiusura del manicomio di Perugia. E’ stata una grande stagione culturale e amministrativa, una grande epopea medica, politica e sociale quella che ha permesso di portare fuori dalle mura manicomiali i pazienti psichiatrici, di promuovere l’incontro e l’integrazione, mai scontata, tra questi e la società perugina ed umbra. Un’esperienza che ha fatto scuola in Italia e nel mondo, che ha dato un grande contributo scientifico e clinico alla psichiatria, all’innovazione nella cura e nella società. In secondo luogo perché la nuova psichiatria nata in quegli anni ha saputo anticipare e precorrere l’approccio One Healt, il modello di medicina oggi più avanzato e promosso a livello internazionale dalla drammatica esperienza del Covid. Non più una medicina difensiva, ma una medicina pro-attiva. Non solo una medicina specialistica e ospedaliera, ma una medicina che promuove l’integrazione delle scienze mediche, che individua il territorio come luogo privilegiato della prevenzione, della cura, della riduzione del rischio per la salute, che utilizza a questo fine l’efficienza delle nuove tecnologie, che non riduce la ricerca, ma la amplia quanto più possibile negli oggetti e negli orizzonti.

Dopo la grande stagione degli anni 60 e 70 la psichiatria umbra è andata in sofferenza, come nel resto del paese, di fronte ad una sorta di spinta alla restaurazione culturale e sanitaria che voleva tornare a chiudere la salute mentale nel ristretto della specializzazione e della medicalizzazione. Oggi dopo il Covid ed in presenza di una domanda nuova, straordinaria e preoccupante di salute mentale che viene dalle diseguaglianze, dalla precarietà, da nuove fragilità, dall’incertezza, dalla rete e in modo sorprendente dalle giovani generazioni, coloro che hanno difeso la salute mentale in Umbria in questi anni difficili riprendono la parola, offrono dati realistici sugli esiti fallimentari di questa restaurazione strisciante e guardano con speranza ad un nuovo Pssr che possa aprire una stagione di svolta e di inversione di tendenza nella sanità regionale.

Pubblichiamo di seguito, in forma di articolo, due relazioni che hanno caratterizzato l’incontro partecipativo promosso dalla Regione Umbria e quello ad esso collegato promosso nella stessa sede dalla Fondazione Alessandro e Tullio Seppilli intitolato “A 60 anni dall’autoriforma della psichiatria a Perugia”. Il primo articolo è di Marco Grignani, direttore del Dipartimento Salute mentale della Usl Umbria 1. Il secondo articolo è di Francesco Scotti, psichiatra della Fondazione Seppilli e tra i promotori dell’autoriforma del 1965.

 

L’incuria del passato e l’impegno di oggi

di Marco Grignani

I tempi cambiano e non ovunque e non per tutti migliorano le condizioni di vita. Nel mondo, guerre e cambiamenti climatici, affermazione di tirannie più o meno esplicite, molto spesso sostenute da un uso spietato dell’intelligenza artificiale come mezzo di disinformazione o di sottomissione delle masse hanno sempre più agio di diffondersi. 

Questa situazione si riverbera sulle politiche, sulle scelte di vita e sulle condizioni esistenziali di tutti e non possiamo non nominarla, parlando di salute mentale, ma una disamina approfondita di tutto questo ci porterebbe fuori strada; è solo necessario tenere presente lo scenario entro cui siamo costretti ad operare.  La salute mentale in Umbria non è indenne da tutto questo, ma ci dobbiamo addentrare nelle peculiarità della nostra situazione contingente. Bisogna innanzitutto dire che ci troviamo oggi in una situazione di grande privilegio perché abbiamo nei governi regionale e del Comune di Perugia persone, donne, che anche in tempi non sospetti e per vocazione personale “si sono sporcate le mani”; sono intervenute sul campo insieme agli operatori di salute mentale per puro spirito di servizio. Hanno poi riproposto questa esperienza diretta come una nuova ricchezza di governo. Questi fatti ci pongono di nuovo nella condizione che John Foot ha descritto come la peculiarità del movimento antiistituzionale dell’Umbria degli anni ‘70: il profondo accordo tra tecnici e politici e la presenza sul campo dei politici stessi.

Ciononostante, l’incuria del passato ha ancora le sue conseguenze. Vengono emessi più del doppio di TSO rispetto alla media nazionale, abbiamo quasi il doppio di posti in strutture residenziali, seguiamo molto bene  i pazienti cronici, ma intercettiamo meno nuovi utenti rispetto a ciò che avviene mediamente in Italia. La spesa è comunque molto elevata ( più di quanto si spende nella maggior parte delle altre regioni italiane), ma è stretta all’interno di pochi conti, per lo più rivolti agli inserimenti in strutture residenziali o semiresidenziali. 

Eppure abbiamo carenze di personale: mancano almeno un medico e uno psicologo in ogni CSM (ndr. Centro Salute Mentale), le altre professioni sanitarie sono meno di un terzo del fabbisogno.

I due gruppi di dati si intersecano tra loro e spiegano alcuni dei fenomeni descritti, anche se sono estratti da sistemi imprecisi e che non dialogano tra loro: i servizi di salute mentale hanno un programma di raccolta, quelli per le dipendenze ne hanno un altro, i servizi per le urgenze un altro ancora; nessuno parla con gli altri.

La mancanza di una cabina di regia regionale e l’abbandono di cui è stata vittima la salute mentale per quindici anni o forse di più hanno fatto sì che le organizzazioni si polverizzassero, cosicché ci troviamo di fronte ad orari di apertura diversi nelle due USL, organizzazioni diverse dei DSM ( quello della USL2 all’interno dei Distretti, quello della USL1 invece gestisce direttamente il suo budget). 

Tutto questo comporta nuove forme di istituzionalizzazione che non sono più paragonabili al manicomio; si assiste ad una polverizzazione con moltissime piccole realtà che tendono alla totalizzazione, se non  vengono adeguatamente curate e seguite. I nostri operatori d’altro canto, sono pochi  e sono formati secondo modalità che non prevedono alcun approccio alla complessità della salute mentale di comunità, ma privilegiano gli aspetti squisitamente tecnici e curricolari; per questo non sono in grado di affrontare compiutamente le articolazioni del mondo di oggi. Si rifugiano così nel loro tecnicismo e si allontanano dai veri problemi delle persone e delle istituzioni.

A tutto questo si aggiungono le conseguenze di quello a cui si accennava all’inizio: le mutate condizioni del mondo portano a nuove forme di psicopatologia, ad estrinsecazioni di comportamenti molto diversi, più esplosivi da un lato e più isolati dall’altro. I disturbi del pensiero sono relegati in secondo piano a fronte di un grande aumento dei disturbi connessi con il corpo, dall’autolesionismo alla vigoressia, agli agiti violenti. Per queste forme di patologia non bastano e non soddisfano le diagnosi tradizionali ed è necessario un nuovo modello di approccio molto più connesso ai contesti di vita ed ai modelli One-Health. Modelli d’ indagine interdisciplinari e multifattoriali atti a individuare i bisogni, ma anche le risorse interne ed esterne, i funzionamenti complessivi personali e legati all’ambiente di vita. Non vanno trascurate le famiglie che sono ormai da considerare una risorsa importante nei processi di cura e delle quali vanno considerate fragilità e punti di forza. 

Nel complesso dobbiamo cambiare paradigma e dobbiamo rivolgerci ad un modello di cura molto più articolato che preveda ampie collaborazioni e contaminazioni di saperi. Non possiamo forse più nemmeno pensare a transizioni tra servizi, ma piuttosto ad una totale integrazione di competenze.

Restano comunque nodi significativi che sono legati ai diritti, che spesso vengono negati ai nostri utenti. Il problema del TSO in questo momento è molto complesso. E’ necessario portare a termine il protocollo già costruito negli anni passati e che attende solo di essere rifinito e deliberato; è indispensabile avere dati certi e chiari sulle contenzioni (numero, durata, tipologia delle persone che la subiscono…) perché questa rappresenta sicuramente una violazione estrema del diritto alla libertà personale e comporta conseguenze, talvolta fisiche, ma sempre psichiche. E’ necessario inserire questa pratica in un modello di gestione del rischio clinico per comprendere quali azioni di miglioramento possano essere applicate per evitarla. Per fare questo è però necessario definire in modo più preciso la collocazione del reparto psichiatrico all’interno del DSM e non nell’Azienda Ospedaliera e la creazione di un secondo reparto nella USL 1, in modo da evitare sovraffollamenti e tensioni.

Ancora, abbiamo il problema degli autori di reato e dei cosiddetti “rei folli” (persone che si ammalano durante la carcerazione). Sono spesso emarginati, stranieri, tossicodipendenti per i quali ci sono solo soluzioni di tipo securitario, perché “pericolosi socialmente” . E’ vero che per alcuni la soluzione potrebbe essere la REMS (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ma il vero problema è come riportare queste persone nel mondo attraverso progetti e percorsi che consentano la loro integrazione, sia dal punto di vista del loro mondo interno, sia rispetto al mondo esterno. Sarà necessario costruire da un lato una REMS nel nostro territorio, per evitare inutili esili, dall’altra costruire e codificare percorsi adeguati che siano chiari e definiti.

In questa situazione apparentemente caotica, dispersa, frammentata e complessivamente difficile, i Servizi della salute mentale resistono e continuano a lavorare. Continuiamo a seguire i pazienti e proponiamo nuove iniziative, continuiamo a fare fronte alle difficoltà e ad aprire squarci di opportunità per i nostri pazienti. Sono stati istituiti almeno sei gruppi di psicoanalisi multifamiliare e sono attivi gruppi di auto mutuo aiuto e gruppi per adolescenti e giovani adulti. Ci muoviamo nella logica di servizi gruppali: gruppi di lavoro che curano attraverso la mente gruppale altri gruppi, siano essi familiari o di individui che soffrono per medesimi problemi; è necessario potenziare gli aspetti di gruppo, sia per rendere più efficienti gli interventi, sia per mantenere una coerenza metodologica. Molti servizi, inoltre, cercano di portare avanti modelli democratici, in cui i pazienti, i loro familiari, e le agenzie che si occupano della salute mentale (dagli enti del terzo settore, a quelli di promozione sociale fino al volontariato) sono protagonisti degli interventi; sono attive le Agora’, piazze in cui ci si incontra per parlare di salute mentale e i gruppi del “fare assieme”, luoghi dove si svolgono iniziative in cui tutti sono protagonisti allo stesso livello. Sono attività di preludio al budget di salute, che andrà codificato, potenziato e applicato su larga scala. Sono scelte tecniche e buone pratiche che vanno diffuse e rinvigorite, nell’ottica di sconfiggere gli elementi verticali e tirannici dell’istituzione totale e nel contempo la persecutorietà tipica della psicosi; in quella dello sviluppo dell’identità personale, attraverso la possibilità di parlare e di essere accolti, invece che essere isolati; infine le attività democratiche servono per potersi riconoscere e sentirsi attivi e vivi, contrastando così gli aspetti mortiferi della psicosi. Anche queste buone pratiche vanno diffuse e potenziate in tutti i servizi.

Una nota finale va sottolineata. Dobbiamo andare verso la costituzione di servizi dialogici e gentili. Dobbiamo fare in modo che i nostri servizi non siano più costruiti per la difesa dei propri operatori e per perpetuare il modello ambulatoriale, che pure è necessario, ma per costruire comunità di cura che accolgano la sofferenza e si muovano nella direzione della riparazione  e dell’elaborazione del trauma che tutti i nostri utenti vivono.

 

Rottura del rapporto politica-psichiatria

di Francesco Scotti

Il 16 dicembre, in coda all’incontro di partecipazione organizzato dalla Regione dell’Umbria per il Piano socio sanitario regionale, c’è stato, per iniziativa della Fondazione Seppilli, il convegno “La salute mentale a sessant’anni dalla auto riforma della psichiatria a Perugia: pratiche di cura, diritti e tutela delle libertà personali”. Tutti i contributi che sono stati presentati, in primo piano quelli di studiosi di diritto, mostrano la sostanziale intersezione tra i problemi di psichiatria, e di quelli di una politica di salute mentale, con molti settori della società che comprendono la scuola, le carceri, la giustizia, le istituzioni della società civile e interessano le pratiche, più o meno buone, dei servizi psichiatrici.

Qui vorrei soffermarmi sullo sfondo che si intravede dietro i discorsi fatti, anche quelli più specialistici, che è costituito dal rapporto tra la politica e la salute mentale.

È questo un tema che, soprattutto oggi, si presenta alla nostra attenzione con grande drammaticità, a causa della perdita di un’impronta fondamentale che la psichiatria aveva ricevuto particolarmente in Umbria. Non è un caso che la riforma dell’assistenza psichiatrica a Perugia, nel 1965, quasi tre lustri prima della legge che ha abolito gli ospedali psichiatrici, si sia avviata con un’inedita integrazione dell’operato di amministratori (quelli della Provincia) e i tecnici (medici, infermieri, assistenti sociali). Ma questo rapporto non è stato sempre univoco e pacifico. Infatti si sono via via ripetuti tentativi di silenziare un dibattito sulla salute mentale e sulla psichiatria, nelle forme nuove in cui erano state realizzate e poi legittimate dalla legge 180 del 1978. Questo modo di procedere è la prova che abbiamo a che fare con una materia che travalica i confini della scienza, all’interno della quale le innovazioni dovrebbero essere valutate sulla base di evidenze. Abbiamo a che fare con una materia in grado di influenzare potentemente il costume, la morale, i valori di una comunità o, più semplicemente, di una classe. Ricordo che quando morì Basaglia, nel 1980, qualcuno, anche in Umbria, provò a dire che, scomparso il fondatore, si poteva ormai liquidare tutto il movimento e rimettere finalmente le cose a posto. Era facile, in quell’occasione, rispondere che la psichiatria alternativa non aveva bisogno di eroi ma era sufficientemente validata dalle esperienze che, in varie parti d’Italia, e non solo a Gorizia e a Trieste, erano state possibili. In un’altra occasione, di fronte alle difficoltà evolutive del movimento umbro per la salute mentale, un illustre collega scriveva che “si era concluso un ciclo storico e il rinnovamento della psichiatria era entrato in crisi insieme alla principale corrente di pensiero che ne aveva determinato l’inizio”. Intendeva dire che con la fine del marxismo e la caduta del “muro”, non vi era più ragione per sostenere tutto ciò che la sinistra aveva difeso in Italia negli ultimi decenni. Questi silenziatori si proponevano di liquidare rapidamente qualcosa di scomodo, cancellando la domanda sul senso politico e antropologico non solo della psichiatria ma dell’intera medicina, per ridurne la natura a quella di una meccanicità caratterizzata da prestazioni puramente tecniche e quindi asettiche.

Al di là dell’opera dei singoli contro-riformisti il silenzio attuale sulla psichiatria rinnovata si deve, a parer mio, alla rottura del legame tra psichiatria e politica che, all’epoca delle grandi riforme in Italia, era stata fondamentale per entrambe. È cambiata la politica, cosicché chi aveva trovato un modo di impegnarsi politicamente attraverso il proprio lavoro professionale, come accadeva quando grandi cambiamenti andavano introdotti nella psichiatria italiana, si è trovato senza spazio operativo. 

La classe politica ci appare talmente timorosa di ricadere nel peccato di ideologia da evitare il riferimento a qualunque ideale generale o di prospettare qualunque cambiamento che non sia commisurato ai piccoli passi quotidiani, ed è attenta a verificare in diretta il consenso della gente, senza la forza di combattere i timori attuali, di proporre un cambiamento delle richieste lanciando un obiettivo che favorisca un nuovo equilibrio piuttosto che essere ossessionata dal mantenere l’attuale. Soprattutto nell’area che convenzionalmente si definiva di sinistra, ci si appoggia su ciò che è visibile in sé e anche l’interesse per la salute viene valutato non a partire dai bisogni ma dalle richieste (che non sempre coincidono con i primi). Una politica che si occupi solo dell’amministrazione delle risorse può mostrarsi infastidita di fronte alle complicazioni di quegli psichiatri che sollevano il problema della incompatibilità tra il dovere primario di curare e il dovere secondario di custodire i malati; perché viene di nuovo attribuita alla psichiatria una funzione di controllo sociale che limita quella di cura.

Il distacco tra psichiatria e politica è incominciato ben prima del crollo delle ideologie e della drammatica ridefinizione della mappa delle appartenenze politiche. Per capire questo mutato rapporto tra psichiatria e politica dobbiamo risalire a un punto di svolta nella storia dell’organizzazione psichiatrica in Italia e dire che non vi è stata una riconversione dell’interesse politico una volta superata l’istituzione che rendeva facilmente leggibili le discriminazioni a cui la psichiatria si prestava, ribadendo la disparità dei rapporti di forza tra le classi sociali e trasformando una parte del disagio esistenziale degli individui, o dei gruppi, o delle famiglie delle classi subalterne, in problema psichiatrico. La fine del manicomio, spesso reale ma qualche volta puramente formale, ha tolto di mezzo l’emblema, la fonte facilmente identificabile dello stigma, l’immagine del male assoluto, senza che questo elemento di facile identificazione fosse sostituito da alcunché.

Nel momento in cui nella pratica psichiatrica si è andati al di là degli elementi non specificamente legati alla malattia mentale, perché hanno anche altre cause, come l’emarginazione sociale e la costruzione delle istituzioni che la definiscono attraverso la separazione, e si sono costituiti legami inediti tra servizi e utenti, la psichiatria non è stata più leggibile per la politica che continua a forzarla entro uno schema arcaico per ridurre il discorso alle problematiche delle fasce marginali. Un altro modo di fare politica non era disponibile e psichiatria e salute mentale non potevano che rientrare nell’ombra. È inquietante constatare come la malattia mentale, nell’epoca del manicomio, fosse ugualmente nell’ombra perché ogni problema era risolto in quanto affidato a un’istituzione veramente totale; i problemi non risolti erano quelli dell’equità, della solidarietà dell’uguaglianza e simili, ma non sembrava che la questione interessasse a qualcuno.

D’altra parte occorre non dimenticare che la psichiatria non ha mantenuto le promesse che improvvidamente e inavvertitamente aveva fatto: troppo presa dai mutamenti istituzionali, con l’illusione che bastassero questi a cambiare la natura della malattia mentale, non aveva prestato abbastanza attenzione ai problemi delle tecniche e delle strategie di cura. Erano questioni che solo pochi prendevano in considerazione, rischiando di essere considerate, da altri, come reazionari.

La mutazione, che deriva dalla separazione dalla politica, non è l’unica che abbia subito la psichiatria. Ce n’è un’altra che è frutto del suo successo. La pratica antistituzionale, quella che rende possibile delegittimare il sistema psichiatrico manicomiale, permette anche di scomporre la categoria dei malati mentali in gruppi, sottogruppi, singoli, portatori di ben delimitati bisogni. Ciò dà spazio a una relazione significativa tra medico e paziente, prima impedita dal prevalere dell’istituzionale che non lasciava spazio per il mentale; veniva cioè impedita dal fatto che i bisogni venissero astrattamente attribuiti e amministrati attraverso l’organizzazione in forma standardizzata; impedita infine dal regime di gestione violenta della follia che impediva rapporti contrattuali. Grazie al superamento di tutto questo si instaura la cura nella forma di un’esperienza personale (potremmo dire “privata”, nel senso del rispetto delle regole della privacy), socialmente silenziosa. Il pericolo derivante da questa trasformazione è che si renda socialmente invisibile la psichiatria, con il rischio di un disconoscimento delle sue funzioni trans-sanitarie e il mancato controllo delle sue possibili perversioni (che produca oppressione invece che liberazione, malattia invece che salute).

Oggi dobbiamo riconquistare una gestione sociale della malattia, e quindi una visibilità. Saremo in grado di farlo rendendo di nuovo presente un dialogo su questi temi e potenziando, nella progettazione e valutazione dei servizi, la presenza degli utenti e dei loro familiari, organizzati in associazioni? Rendendo più competenti le partecipazioni del volontariato? Riscoprendo la vocazione iniziale delle cooperative sociali e di tutta l’imprenditoria senza fine di lucro, specificamente dedicate alla salute mentale?

Ma è bene porre anche la domanda sul modo in cui gli operatori possono fare oggi legittimamente politica. Lo fanno in quanto influenzano l’analisi dei bisogni dei cittadini, che non è mai un’operazione asettica da affidare alle tecniche epidemiologiche, ma passa per il riconoscimento del valore di un bene che ha a che fare con la qualità della vita e delle relazioni tra persone; essi cercano valori e il loro operato propone valori. Parliamo di fare politica perché vi è un entrare in campo, schierarsi di fronte al conflitto di valori e al conflitto di interessi. È inevitabile che ci sia un conflitto perché ad ogni valore si oppone un disvalore e ciò che è disvalore per uno (un certo gruppo, in una certa storia), è valore per altri.