di Federigo Argentieri*
Il punto di partenza per capire le ragioni della guerra in corso non può che essere di tipo culturale. Per molti russi (ma forse non la maggioranza), a cominciare da Putin, espressosi recentemente in questi termini, l’Ucraina è una provincia russa, senza identità propria, senza storia, lingua, cultura, sentimento comune e tutto il resto di ciò che costituisce una nazione. Un po’ come Metternich nel 1848 e la sua famigerata “espressione geografica” attribuita all’Italia.
Ma nel caso del rapporto russo-ucraino, c’è molta maggiore irrazionalità viscerale di quanta potesse esistere nel freddo realismo del cancelliere austriaco, al punto da rendere difficile una piena comprensione del fenomeno. Perlomeno ce n’è in Putin, il quale vede le cose in modo assai diverso da quanto facessero Eltsin e Gorbaciov, i quali non parvero avere (il secondo tuttora) le fisime e le paranoie del loro successore.
La realtà naturalmente è assai diversa: l’Ucraina ha una storia, una cultura, una lingua a sé stanti, anche se l’assenza di un lungo periodo storico di indipendenza le ha rese assai misteriose, quando non sconosciute, alla maggior parte del pubblico, ivi compreso quello colto. Ma dal 1991 ad oggi, la coscienza di possedere un’identità compiuta ha fatto notevoli progressi.
Un ruolo importante in questo senso lo ha certamente svolto la ricerca storica, sia occidentale che ucraina, tesa a portare alla luce e comprendere appieno la tragedia del cosiddetto Holodomor, ossia della carestia deliberatamente inflitta da Stalin agli ucraini (ma non solo) nel 1932-33, per vincerne la resistenza alla collettivizzazione dell’agricoltura e piegarli alla logica dell’economia pianificata e completamente statalizzata. Secondo Raphael Lemkin, l’avvocato polacco che aveva coniato e introdotto il termine ”genocidio” nel vocabolario internazionale e che ne parlò a New York nel 1953, sia gli armeni nel 1915 che gli ucraini nel 1932-33 potevano legittimamente definire in tal modo quello che avevano subito, similmente agli ebrei. A partire dal 1986, un numero crescente di pubblicazioni sia occidentali che sovietiche ricostruirono le circostanze dello storico crimine, che sicuramente contribuirono ad accelerare il desiderio degli ucraini di rendersi indipendenti, culminato nel 1991 con lo scioglimento dell’URSS.
Se negli anni Novanta e fino a dopo l’11 settembre 2001 non vi furono particolari tensioni, visto il rapporto positivo istituito dall’amministrazione Clinton con Russia e Ucraina, la situazione cominciò a peggiorare con l’elezione di Putin alla presidenza 22 anni fa, ma anche con il nuovo concetto strategico americano che tendeva a sminuire il ruolo internazionale della Russia. Inoltre, il nuovo presidente di quest’ultima, reduce dalla tremenda e tuttora sottovalutata ”normalizzazione” della Cecenia, esibiva subito una vera e propria ossessione per il vicino sud occidentale, ad esempio chiedendo ed ottenendo il siluramento del suo ministro degli Esteri Tarasyuk, giudicato troppo filo- occidentale. Dopo aver dovuto incassare l’attacco all’Iraq e l’allargamento di Nato e UE a dieci nuovi membri, Putin subì un ulteriore schiaffo dalla cosiddetta Rivoluzione Arancione, ossia il movimento di massa che a Kyïv alla fine del 2004 protestò contro i brogli elettorali e riuscì a ottenere una ripetizione del ballottaggio presidenziale che ne ribaltò il risultato.
Fu probabilmente a quel punto che gli USA e l’UE avrebbero dovuto cercare nuovi accordi con Mosca, confinata nell’angolo e frustrata. Sarebbe stato meglio evitare di menzionare un possibile ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato e ascoltare con più attenzione il discorso irato di Putin a Monaco nel 2007. L’indipendenza concessa al Kosovo (sic) nel 2008 fu un ulteriore, grave e gratuito sgarbo alla Russia, con la quale esisteva un accordo non scritto per cui solo le ex repubbliche (sovietiche e iugoslave), non le regioni, avevano diritto all’indipendenza. Putin reagì con l’invasione di Abchazia e Ossetia del sud, così esplicitando il suo concetto strategico: impedire l’ulteriore allontanamento dalla Russia occupando parte del territorio delle repubbliche centrifughe.
Incassato un ulteriore ceffone con la vicenda libica del 2011, Putin due anni dopo riuscì con successo a dirottare il viaggio di Kyïv verso l’UE, che provocò un’altra sollevazione popolare da lui definita un colpo di stato, come ripetuto dagli utili idioti nostrani che blaterano dei “nazisti dell’Azov” e dell’”incendio di Odessa” distorcendo mostruosamente i fatti oppure inventandoli di sana pianta. Colta di sorpresa in Crimea, l’Ucraina ha combattuto tenacemente otto anni per la riconquista del Donbass e non è da escludere che Putin abbia deciso di intervenire per evitarla. Ora è tardi per le recriminazioni e si deve decidere da che parte stare. I torti subiti non giustificano affatto le aberranti pratiche putiniane messe in atto a partire dal 24 febbraio. Una sua sconfitta sul campo, comunque ottenuta, non potrebbe che fare del bene anche alla Russia evitandone lo sprofondamento ulteriore in un baratro di isolamento e di paurosa arretratezza.
*studioso dell’Europa dell’Est, docente alla John Cabot University