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di Sud

Nel VII centenario della morte di Dante, celebrato nel 2021, si è visto un po’ di tutto. Nuovi musei e opere d’arte, film, concerti, performance teatrali, mostre, rievocazioni storiche, letture, nuove edizioni e centinaia di studi. D’altronde la Commedia, vera “opera mondo”, ha sempre fornito un’infinità di stimoli per studiare Dante in rapporto a personaggi, concetti scientifici, filosofici e teologici, luoghi geografici, flora e fauna, usi e costumi, e tanto altro.
Non potevano quindi mancare gli studi su Dante e il cibo. Qui però i dantisti (o i dantofili) hanno avuto una brutta sorpresa. Malgrado dedichi due canti ai golosi (il sesto dell’Inferno e il ventitreesimo del Purgatorio) nella Commedia si parla pochissimo di cibo (e quasi sempre in senso metaforico). Il “pane degli angeli”, i diavoli che affogano i dannati nella pece come i cuochi fanno con la carne nel brodo, le anguille di papa Martino, e poco più.
Il cibo come metafora di nutrimento spirituale è anche la cifra del Convivio. Ma è quasi sempre il pane ad esservi nominato (15 volte); a rappresentare, con un’elegante sineddoche, tutte le vivande. Il pane o i suoi componenti, soprattutto grano (8) e frumento (5). Ma Dante, che aveva mangiato «lo pane altrui», sa bene che i poveri aggiungono al “nobile” frumento cereali più “vili”, e vi costruisce una metafora sulla progenie umana.
Uno di questi cereali è il sorgo, che Dante chiama “meliga”. Il termine, presente ancora oggi nei dizionari con quell’accezione, ha avuto una storia curiosa. All’inizio del Seicento nella pianura padana accanto al sorgo si iniziò a coltivare il mais. I contadini lo credevano una varietà di sorgo (meliga rossa) e per qualche decennio chiamarono il mais “meliga bianca”. L’errore è rimasto nel biscotto di meliga, tipico del Piemonte, rigorosamente al mais.