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di Assunta Pierotti e Piergiorgio Sensi*
Foto ©Fabrizio Troccoli

Che i nostri sentimenti non uccidano noi, né muoiano essi” (J. Donne)

Se “femminicidio” significa l’uccisione di donne “per mano di famigliari, compagni, congiunti”, se tale fenomeno è in aumento (nel 2025 –dati dal sito https://femminicidioitalia.info – al 30 giugno si sono già registrate 26 uccisioni; nel 2024 sono state 39), sembra evidente che un consistente numero di relazioni sentimentali, quando si interrompono, scatenano reazioni violente, omicide. Anche l’età dei soggetti coinvolti sta calando e, in molti casi, al “femminicidio” segue il (più o meno riuscito) tentativo di suicidio da parte dell’omicida.

Il grido ricorrente, nelle commemorazioni e sui social, “non una di più”, è vanificato dalla inesorabilità degli avvenimenti e finisce per essere una sorta di gesto apotropaico con il quale si cerca di interrompere l’angoscia che sale quando non si riesce a comprendere bene il senso di ciò che sta accadendo.

Se non si vuol indulgere a facili (e vane) letture o ad altrettanto inefficaci esecrazioni, bisogna provare a leggere tali fenomeni nelle loro dinamiche più profonde (intus-legere).

O tempora

La povertà culturale e l’indebolimento dei freni inibitori costituiti dal “senso morale” (sempre più sfilacciato in tempi di individualismo esasperato e di relazioni “liquide”) rendono difficile pensare e proporre soluzioni efficaci e rapide. Invocare l’introduzione nelle scuole di varie forme di educazione (sentimentale, sessuale ecc.) rischia di essere gesto apotropaico anch’esso. Bisognerebbe innanzitutto porsi la domanda “chi educa gli educatori?”? Se è la cultura in cui siamo (tutti) immersi a rendere facile il ricorso alla violenza omicida quando si interrompe una relazione sentimentale, anche (e soprattutto) tra gli adulti, ci si deve chiedere quale concezione dell’amore e delle relazioni posseggono quegli adulti mandati ad educare i più giovani; certo, per chi continua a confondere formazione e informazione il problema non si pone.

La rappresentazione che gli adulti hanno di loro stessi e dei propri bisogni fondamentali, le loro reazioni alle avversità, mostrano chiaramente una minor capacità di adattamento-resistenza alle sollecitazioni a cui sono sottoposti e, quindi, una maggior esposizione a derive psico-patologiche. 

Relazione e realizzazione di sé.

Nel proprio processo di formazione, ogni persona cerca di raggiungere (in modo sempre più consapevole) la “sua” identità, l’età adulta, intesa come autonomia e indipendenza. Per secoli, l’adulto non faticava troppo a raggiungere quella identità definita dalla cultura tradizionale di appartenenza, ma oggi non è più così. L’adolescente, nel suo processo di crescita, tendeva a conquistare quello status (proprio dell’adulto) di piena indipendenza (di uscire dalla minorità, ossia dal bisogno di tutela. Nell’etimo del verbo latino ad-olesco (di cui adulescens e adultus sono rispettivamente participio presente e passato) risuona l’eco di una intenzione di pienezza (oleo, dal greco òlos, tutto), a cui tende il crescere. Tale pienezza, però, va intesa come il fine (non la fine), l’ideale regolativo che guida e orienta la maturazione. L’ideale regolativo non è mai totalmente raggiunto; ma questa irraggiungibilità non va assolutizzata, altrimenti si perverte il tendere e lo si converte nella pretesa di permanere in quello stato “adolescenziale” che vuole essere libero ma non accetta la responsabilità connessa alla libertà, pretesa espressa con la formula “sindrome di Peter Pan”.

Il processo di maturazione è processo di costruzione dell’identità personale;  muove da una mancanza (consaputa) di qualcosa di essenziale, di costitutivo, anche sotto il profilo relazionale. Le relazioni sono, infatti, costitutive della nostra identità: che altro è la “storia” con la quale ci presentiamo a chi non ci conosce se non la serie delle relazioni più significative che abbiamo stabilito? Potremmo dire che la nostra singolarità personale ha preso forma nella cura del nostro saperci mancanti, e perciò desideranti e bisognosi di relazioni. 

Le relazioni personali si strutturano come processo di identificazione/differenziazione; esse sono tanto più significative quanto più nella persona (differente) con cui ci relazioniamo riconosciamo qualcosa di essenziale per (di identico a) noi stessi: come già attestato agli inizi della Bibbia (Gn 2, 23-24), l’uomo che si sente mancante (solo) sceglie come compagna la donna (l’altra) nella quale riconosce la  “carne della sua carne”; per questo l’uomo non cerca regressivamente la ricostituzione della pienezza nella carne da cui proviene (della genitrice, con buona pace di Freud), ma in quest’altra persona che “spiritualmente” riconosce come “sua”. Ciò che vieta la ricostituzione regressiva dell’unità non è tanto un tabù quanto la maturazione della consapevolezza che per superare il proprio limite bisogna trascenderlo “spiritualmente”: “elevando a spirito la relazione tra i sessi” (Hegel). 

L’Amore propriamente detto (lo scriviamo con la maiuscola) è quello che sa la necessità di trascendere “spiritualmente” la dimensione finita. Che nella relazione “spirituale” tra i sessi sia incluso anche l’atto sessuale è cosa che la nostra cultura ha smesso di pensare, ma sapeva da sempre, se solo pensiamo al Cantico dei Cantici o al Simposio di Platone.

Amore che salva, amore che annienta 

Nel Simposio, Platone, fa tirare le conclusioni (la “morale della favola”) del discorso su Eros, tema del banchetto, a Socrate; ma questi riferisce un discorso non suo, bensì di una donna (si noti!), ossia il mito della nascita di Eros di Diotima di Mantinea. Secondo questo mito, Eros è figlio di Penìa – l’indigenza, la mancanza -, e di Pòros – l’intraprendenza, la ricerca di soluzioni. Eros, quindi è colui che, mancando, cerca la pienezza di cui è privo: sa di mancare, ma sa anche la direzione da prendere per riempire tale mancanza: la direzione da prendere è quella della pienezza, che impone un continuo trascendimento della propria finitezza. Se si inizia a farsi coinvolgere (ad amare) il bello nei corpi, non ci si può fermare qui, bisogna innalzarsi a ciò che rende belli i corpi, ma che è oltre essi. La pienezza del bello e del bene è il divino. 

Eros, perciò, non cerca il possesso, bensì il trascendimento: la logica del possesso è quella della dispersione-dissipazione, perché il possesso consuma e fa sorgere di nuovo il bisogno (la logica perversa di Afrodite pandemia narrata, nel Simposio, da Pausania). 

A pervertire Eros in direzione del possesso-consumazione è quello che gli psicoterapeuti chiamano “Ego”, nella sua pretesa di inglobare/dominare tutto. Tale pretesa cerca l’appagamento nella consumazione, non nel trascendimento. La consumazione, però, non colma. Dopo aver “consumato la cosa”, il bisogno torna a presentarsi, ancora più acuto: ne sa qualcosa chi ha sperimentato le “crisi di astinenza”. Il desiderio autentico è tendere al vero, all’intero; come dice l’etimo della parola, de-siderare è aver a che fare “con le stelle”, con quelle luci che segnano il limite estremo del visibile e ne indicano l’ulteriorità. 

L’Amore è la forza che porta al trascendimento e alla salvezza perché, come afferma l’evangelista Giovanni (1Gv 4, 7-8), non è solo la via, ma anche la verità e la vita (Gv, 14,6) in quanto è la natura stessa del divino: “l’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore”. Questo Amore non può essere ridotto a emozione, a qualcosa di effimero che suscita reazioni altrettanto effimere (magari senza arrivare alla corteccia cerebrale, come teorizza il neuroscienziato LeDoux ne Il cervello emotivo); men che meno è un sentimento, legato allo “amor sui”. 

L’amore di sé (l’egoismo) è la perversione dell’Amare: porta a strumentalizzare gli altri, a ridurli a meri oggetti di consumo emotivo; direbbe Agostino, è la via che porta alla perdizione, non quella che “fa trovare pace al cuore inquieto”. Lo amor sui (che è brama di soddisfazione immediata) è quello che detesta la rinuncia, che non accetta la dilazione del godimento immediato (necessaria, invece, per il raggiungimento di obiettivi più alti, come ben sanno gli atleti), quello che rifugge dal sacrificio e dal dono di sé (necessari al far crescere gli altri che ci vengono affidati, come sanno genitori ed educatori), quello che non accetta di morire per far vivere l’altro che ama, ma è incline a uccidere chi gli si sottrae; segue il motto latino mors tua vita mea, non comprende più perché il co-ire, culminante nell’orgasmo, veniva indicato – nel francese d’antan – come la “petit mort”. 

L’amore di sé è quello che riduce anche Dio ad “oggetto di consumo emotivo”: Maestro Eckhart, nel Trecento, ammoniva i suoi confratelli a non amare Dio “come il contadino ama la mucca, ossia per il latte e il formaggio”. Margherita Porete (contemporanea di Eckhart), ne Lo specchio delle anime semplici, scrive che l’amore per se stessi, l’amore-che brama, annienta l‘altro, mentre nell’Amore grande, nell’Amore nobile, il volere diventa un “niente volere che mette tutto il suo Amore sotto i piedi sterminando la volontà”. Questo Amore è un tendere senza pretendere. Di questo Amore (per citare ancora Margherita, e Dante) bisogna tornare ad avere “intendimento”.

 

Il femminicidio-suicidio e la perversione dell’identità in proprietà.

Se la persona che si crede di amare è stata ridotta ad “oggetto” posseduto, è chiaro che quando finisce il gusto del possesso (l’aroma del chewingum) perde ragion d’essere la stessa relazione con l’oggetto, il quale, “non sapendo più di nulla”, può essere solo gettato via. Se all’oggetto era fortemente “attaccato”, in una logica tipicamente infantile, l’ex possessore è fortemente tentato di impedire che tale “oggetto” possa essere “posseduto” e “governato” da altri, perciò lo annienta.

Quando, invece, è l’“oggetto di consumo emotivo” che (ricordandosi di essere soggetto) si sottrae alla relazione oggettivante e rivendica il proprio ruolo di “persona”, è chiaro che mette in crisi (nega) l’identità dell’altro come “possessore” e legislatore della relazione. (necare e negare in latino non sono solo verbi assonanti).

In entrambi i casi, il “possessore” ha perso la “proprietà” e perciò ha perso l’identità di possessore: senza quella “cosa”, non sa più chi è (e perché vive). L’esito tragico è figlio di una fissazione ideativa “sbagliata”, pervertita, dell’amore e della relazione.

Accettare il limite e la fragilità.

Bisogna che la consapevolezza del limite, del fatto che nel vivere ci saranno frustrazioni, fallimenti, sconfitte, diventi un “pilastro” dell’autentica educazione-formazione; bisogna che la consapevolezza di dover andar oltre la finitezza, aprendo l’io a relazioni autentiche (non chiudendolo nella pretesa dell’ego), sia la stella polare del processo di realizzazione di sé. Ci deve sempre accompagnare la consapevolezza che nessuna relazione è “assoluta” (l’assoluto è, per definizione, il non relativo), che ogni relazione – come è sorta – può anche finire. Quello che permane, di ogni relazione autentica, è la gratitudine per chi, relazionandosi con noi con cura e dedizione, ci ha consentito di crescere, di diventare sempre più completi, in-dipendenti. Bisogna aver chiara consapevolezza di che cosa veramente desideriamo, il “valore” che orienta le nostre scelte, perché ogni scelta autentica, è “pensiero desiderante e desiderio pensante” (Aristotele, Et.Nic. 1139a 36). 

La logica del possesso-consumo genera relazioni tossiche, genera dipendenza e violenza. Alle vittime di queste relazioni, alle tante ragazze e donne uccise, non si può non pensare se non con dolore e profonda compassione; dobbiamo, però, com-patire e comprendere (non giustificare) anche quei ragazzi e quegli uomini che uccidono: sappiamo che non sono gli unici colpevoli.

*dell’associazione “Il Pellicano”