di Fabio Maria Ciuffini
Foto ©Irina Iriser
Della vicenda dei ragazzi nel bosco si è parlato moltissimo. Salvini ha persino dichiarato che non ci dorme la notte. Insomma, un caso di grande visibilità pubblica e di acceso dibattito sui media e sui social.
Vorrei dunque aggiungere la mia voce a quelle già intervenute, portando una testimonianza diretta e un contributo alla discussione su quelle scelte di vita.
Perché ho vissuto per lungo tempo – per esempio da sfollato – in condizioni non dissimili da quelle dei ragazzi nel bosco.
Con il gabinetto esterno, così come migliaia di miei coetanei nelle case coloniche degli anni ‘40 e ’50.
Loro comunque privilegiati rispetto a quelli che avevano come unico gabinetto, la stalla.
E per mesi interi ho vissuto direttamente nel bosco dove il gabinetto era … il bosco,
Durante la guerra in case di contadini e poi seguendo mio padre nelle sue lontane avventure di caccia. In posti sperduti in Umbria, Sila, Isola d’Elba. E ero anche io un bambino.
Sempre senza acqua calda, abituato a lavarmi con acqua fredda all’esterno o, al meglio, entro casa, in una angusta bacinella. Però ricordate il ragazzo della Via Gluck? Cui un amico vantava le gioie dell’inurbamento: “…potrai lavarti in casa senza andare giù nel cortile … “
Dunque, nella Milano cantata da Celentano, quella non era una condizione del tutto eccezionale.
E poi, come dimenticare che di famiglie survivaliste o semplicemente amanti della natura ce ne sono tante in Europa o in America, dove – fra l’altro – tra i bestseller scritti da Jeffery Deaver figurano le avventure da adulto di un ragazzo cresciuto dal padre survivalista?
E aggiungo: sì, dopo l’8 settembre del ’43 a scuole pubbliche chiuse, sono anche stato educato dalla “scuola paterna “- allora si chiamava così – avendo come insegnanti mio padre ingegnere e professore di matematica e la sua compagna di allora.
Il che ha fatto sì che a undici anni sapessi già l’algebra del liceo e potessi leggere correntemente un libro in francese. E poi sono stato sempre il primo della classe e della scuola.
Forse per quell’imprinting iniziale? Così come tanti di quei ragazzi di campagna senza gabinetto in casa sono magari diventati grandi dirigenti d’industria o dirigenti politici. E avevo libri. Una biblioteca molto ridotta ereditata da un mio zio medico. Pochi libri, ma importanti: fra tutti “I promessi sposi” che sapevo quasi a memoria e, ricordo bene, “Quo Vadis”. Quello era malridotto senza copertina e mancante delle ultime tre pagine. Per quanto ne sapevo, potevano essercene ancora altre cento. Così quando la guerra finì e potei leggerne una copia intatta ebbi la delusione di scoprire che le vicende di Vinicio e Licia finivano lì. E lessi persino un saggio di psichiatria infantile “Tormento e felicità della prole” da cui appresi che i metodi educativi paterni, acculturamento a parte, erano quasi tutti sbagliati. E di sopportarli meglio per questo. E, come i ragazzi del bosco, ho vissuto felicemente a diretto contatto con la natura anche i ripari improvvisati da cacciatori.
Tornando a Celentano, in quella canzone che io promuoverei ad inno degli ambientalisti, ricordate il rimpianto per quella condizione perduta? “Solo case su case, catrame e cemento. Là dove c’era l’erba ora c’è una città. E quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà?”
Dunque, piuttosto che preoccuparci del gabinetto e dell’acqua fredda fuori casa, dovremmo domandarci: quei ragazzini nel bosco avranno genitori come i miei: altrettanto colti e con altrettanti libri?
E, tornando a me, solo a guerra finita, ebbi modo di riscoprire l’acqua calda, i giornali, la radio e i gabinetti normali. E appena fu possibile, andai a scuola. E fu proprio la scuola che mi permise, oltre a socializzare via via con altri bambini, ragazzi, adolescenti, di fare un confronto tra le passate condizioni di vita mia e di quelle degli altri. E per tutti gli anni che vennero dopo ebbi un certo complesso di superiorità nei confronti dei miei compagni che non avevano avuto un contatto così intenso con la natura e che sarebbero morti di terrore se avessero dovuto passare la notte da soli in un bosco avendo per solo riparo una capanna di frasche.
Dunque, no, non è la faccenda del gabinetto a farmi preoccupare di quei bambini, ma il fatto che quei ragazzi non andassero a scuola. Insieme ad altri ragazzi. Cosa che invece era ed è assolutamente un loro diritto. Negarglielo è stata una scelta errata dei loro genitori.
Così come gli è stato negato il diritto di conoscere un mondo diverso da quello da survivalisti in cui vivevano.
E i giudici?
Detto che ancora una volta sarebbe bene stare attenti a fare critiche senza sapere tutto fino in fondo, hanno fatto bene a sottrarre i figli ai genitori?
Non lo so, ma forse la cosa migliore sarebbe stata ed è quella di fornire uno scuolabus a quei ragazzi, mettendoli in condizione di frequentare la scuola dell’obbligo. Un dovere per i genitori, un diritto per i figli. Poi, una volta diventati adulti, o anche prima, potranno fare le proprie scelte di vita.



