Il 25 aprile scorso, in ricorrenza della Festa della Liberazione, si è tenuta una conferenza organizzata dall’associazione “Tezio Partecipa” presso le Cantine Carini a Colle Umberto di Perugia, con il patrocinio del Comune di Perugia, dell’A.N.P.I., dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea e della Fondazione Pietro Conti. Alla Conferenza sono intervenuti il Professor Mario Tosti che ha approfondito il tema “Guerra, Resistenza e Liberazione”, il Professor Ruggero Ranieri che ha parlato de “La politica degli Alleati, la Resistenza italiana e la Liberazione” e infine la Professoressa Luciana Brunelli che ha affrontato il tema “il 25 Aprile tra Storia e memoria”. Una ricostruzione magistrale che fa giustizia delle tante strumentalizzazioni e dell’equivoco della “memoria condivisa”
Passaggi Magazine pubblica oggi la relazione di Luciana Brunelli che ci dice cose importanti su un tema molto delicato per la vita Repubblicana e per la trasmissione dei suoi valori fondativi alle giovani.
di Luciana Brunelli
Parlare del 25 aprile significa ragionare sul calendario civile nazionale, come si fa ormai da una decina d’anni. In un calendario sono importanti sia le date che ci sono e perché ci sono, sia quelle che non ci sono e perché. Ad esempio, siamo certamente uno dei pochi Paesi in cui il giorno di fondazione dello Stato unitario, il 17 marzo, non è festa nazionale. Non lo era neanche nei periodi liberale e fascista, quando l’Unità si festeggiava la prima domenica di giugno che era la festa dello Statuto. Per quale motivo? Perché c’erano forti divisioni sul significato di quella data: l’Unità era stata fatta con l’opposizione dei cattolici e poi era stata sconfessata dai repubblicani e dai socialisti. Divisioni costanti nella nostra storia: come scrive Massimo Salvadori, pur essendo uno Stato giovane, l’Italia ha avuto ben tre guerre civili, quella del 1860-61 contro il cosiddetto brigantaggio meridionale, quella del ’20-22 tra fascisti e antifascisti, quella del ’43-45 tra antifascisti e nazifascisti. E naturalmente le guerre civili, che sono le peggiori, portano con sé uno strascico di divisioni della memoria.
Negli ultimi anni si è cominciato a parlare del 17 marzo, che è stato festa nazionale a tutti gli effetti nel 2011 per il centocinquantesimo dell’Unità durante la presidenza di Giorgio Napolitano. Poi, dal 2012 è divenuto una solennità civile definita “Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”. Ma attenzione perché anche il 4 novembre è festa dell’Unità nazionale e delle Forze armate, però l’unità del 4 novembre si riferisce alla fine della Prima guerra mondiale mentre il 17 marzo al 1861. Da questi pochi cenni si vede quale ginepraio sia l’andamento della memoria pubblica nella storia, per motivi politici, culturali e anche economici come fu nel ’77 quando, a seguito della crisi petrolifera, furono soppresse diverse festività. * Intervento pronunciato il 25 aprile 2025 al convegno “25 Aprile al Tezio” organizzato da “Tezio Partecipa”.
Ma la complessità vale anche per le festività religiose riconosciute dallo Stato, e anche per quelle strettamente religiose come la festa del Cristo Re promulgata dalla Chiesa nel 1925 in parallelo al potere monarchico-fascista.
Ora, possiamo dire che il 25 aprile, dal 1946, è festa della liberazione italiana in senso stretto, perché invece altri Paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra, celebrano la fine della Seconda guerra mondiale e la liberazione l’8 maggio, quando la Germania firmò la resa in Europa.
Questa cosa è da notare perché anche in Italia ci sono celebrazioni laiche che pure sono legate a fatti internazionali: per esempio, il 27 Gennaio, il 10 Febbraio, l’8 Marzo, il 1° Maggio.
L’Italia ha scelto il 25 aprile e non l’8 maggio, e neppure il 29 aprile, quando i tedeschi firmano la resa incondizionata a Caserta, e neppure il 2 maggio, giorno della resa effettiva. Questo mostra come la memoria pubblica sia una costruzione fatta di selezioni e di scelte.
Così è una costruzione anche la storiografia. Ma, mentre la storia scritta si basa su documenti vagliati con metodo critico e interpreta gli avvenimenti, la memoria è soprattutto ricerca e attribuzione di senso agli avvenimenti stessi.
E naturalmente, nell’attribuire il senso, la memoria pubblica è sempre contigua alla politica. Si vede bene nei cambiamenti di regime, quando mutano radicalmente i calendari civili come è stato nel passaggio al fascismo e poi alla Repubblica. Ora, questa contiguità con la politica è una questione sempre aperta, non è da demonizzare ma da esaminare in modo critico. L’importante è che la scelta politica si fondi sui fatti e sulla storia. Quando invece si fonda su una ideologia, l’uso pubblico diventa politico e a volte anche partitico.
In questo senso direi che il 25 aprile è una combinazione di storia e memoria, di fatti e di attribuzione politica. Vediamo i fatti nel contesto dell’aprile 1945.
Anzitutto, dall’aprile ’44 al maggio ’47 vi furono governi di unità nazionale che comprendevano tutte le forze impegnate nella Resistenza: democristiani, comunisti, socialisti di unità proletaria, azionisti, liberali, democratici del lavoro. Erano i governi Bonomi, Parri e poi De Gasperi. Nel maggio ’47 terminò l’unità politica quando il quarto governo De Gasperi estromise le sinistre, anche se l’inizio della crisi risaliva al dicembre 1945 con la fine del governo dell’azionista Ferruccio Parri, vice comandante militare, assieme al comunista Luigi Longo, del Corpo Volontari della Libertà che era stato costituito nel giugno 1944. Comandante era il generale Raffaele Cadorna.
La divisione politica si rafforzò con le elezioni del 18 aprile ’48 che videro la netta affermazione della Democrazia cristiana. Quindi, nel periodo unitario ci furono: la Liberazione, la proclamazione della Repubblica, la successiva “amnistia Togliatti”, la firma del trattato di pace nel febbraio 1947. Anche la proclamazione del 25 aprile a festa nazionale fu concorde tra i partiti: essa comunque si fondava sui fatti e non soltanto su un accordo politico. Certo erano fatti che riguardavano il movimento armato partigiano e l’Italia settentrionale anche se il riferimento era alla liberazione di tutto il Paese.
Pertanto c’è chi, penso a Gabriella Gribaudi, ha parlato di una festa nordista, che non considera né il meridione, né le quattro giornate di Napoli nel settembre ’43, né la scia di stragi nazifasciste lungo gli Appennini centro-settentrionali.
Perché fu scelto il 25 aprile? I giorni della Liberazione erano stati diversi: Bologna il 21, Torino il 23, Genova il 26, Venezia il 29. Ma il 25 a Milano il Comitato di Liberazione Alta Italia aveva assunto tutti i poteri civili e militari prima che arrivassero gli Alleati il 29. Il generale Cadorna aveva proclamato l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. Perciò il 25 era la data più simbolica dal punto di vista politico perché sottolineava il protagonismo dell’insurrezione partigiana nella Liberazione, che aveva cacciato i tedeschi prima degli Alleati.
Così, il 6 maggio, a Milano, il Comitato di liberazione e i partigiani sfilarono in un interminabile corteo a dimostrare la loro presa di possesso della città. Sono celebri le foto di quella giornata. Alla testa del corteo non c’erano donne. C’era la rappresentanza della nuova Italia liberata con al centro Cadorna, Parri e Longo. Perciò, dopo la rottura dell’unità politica, le sinistre, e specialmente il Partito comunista, hanno rivendicato proprio in forza di quella data il loro diritto a governare l’Italia democratica.
Bisogna dire che l’esultanza di quei fatti vissuti al nord non corrispondeva ai problemi al di sotto della Linea Gotica, come si vede in Umbria dalla stampa locale: la fame, il mercato nero e i lutti per i bombardamenti; l’occupazione alleata che durava da quasi un anno, con il governo militare che aveva disarmato i partigiani e a Terni aveva arrestato il comandante della brigata Gramsci; le migliaia di uomini ancora prigionieri di guerra e i deportati; la questione di Trieste e del confine orientale; i criminali di guerra ancora liberi, e sappiamo che non ci sarebbe stata una Norimberga italiana.
In conclusione, l’occupazione alleata in Umbria terminò a maggio e in Italia il 31 dicembre ’45; solo nella primavera del ’46, con le libere elezioni amministrative, il referendum del 2 giugno e l’elezione dell’Assemblea costituente, l’Italia ritrovò la sua sovranità e indipendenza nazionale e la sua libertà. Perché, come è noto, liberazione non è sinonimo di libertà.
Comunque, la politica ha sempre considerato il 25 aprile, fondativo della Repubblica e della Costituzione, più importante del 2 giugno. Difatti, quando nel ’77 furono soppresse alcune festività, il 2 giugno divenne una festa mobile e tornò festa nazionale a tutti gli effetti soltanto nel 2001 durante la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, che ristabilì la continuità tra 25 aprile e 2 giugno, ossia tra Liberazione e Repubblica. E cioè, se il 25 aprile era una festa divisiva perché richiamava la guerra civile del ’43-45, la Repubblica riunificava la coscienza nazionale sotto un’unica bandiera. E in ciò si nota la cultura politica di Ciampi che dal ’44 al ’47 era stato nel Partito d’azione.
Dunque, è evidente che la memoria del 25 aprile dal ’48 a oggi è sempre stata in discussione, è una storia della memoria segnata dalle fasi e dalle svolte politiche.
La prima svolta, come abbiamo visto, fu quella del maggio 1947 e per molti anni le celebrazioni dei partiti del cosiddetto arco costituzionale si svolsero separate. Perciò si può osservare una doppia divisività del 25 aprile. La prima rispetto agli eredi della parte sconfitta nella guerra civile, il Movimento sociale italiano che nel 1955 chiedeva l’abolizione della festa e celebrava a Roma il ricordo dei caduti della Repubblica Sociale. La seconda divisione era dentro l’arco costituzionale con la cosiddetta conventio ad escludendum dei comunisti, che poi si attenuò durante il “compromesso storico”.
Invece una svolta unitaria ci fu nel ’78, nei giorni del sequestro Moro: nell’imponente manifestazione di Milano lo slogan, contiguo alla politica, era “La democrazia non si baratta, con i terroristi non si tratta”. Seguirono anni di stanca e rituale celebrazione nei quali era piuttosto il Primo Maggio a vedere la maggiore partecipazione popolare.
La svolta politica successiva è quella del ’94, dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi il 26 marzo. Erano nate nuove forze politiche che non avevano una tradizione antifascista: Forza Italia, la Lega Nord e il partito di Alleanza Nazionale, erede del Movimento sociale, che nel ’95 sarebbe entrato nel governo di centro-destra. Ebbene, nel ’94 la manifestazione antifascista indetta a Milano dal giornale «Il Manifesto» vide la partecipazione unitaria di almeno 300.000 persone.
Ora, in questa tribolata storia della memoria del 25 aprile noterei almeno due distorsioni. La prima è l’enfasi posta sulla vittoria. Celebri le parole di Giuseppe Di Vittorio il 25 aprile del ’46: «conclusione vittoriosa dell’insurrezione nazionale, […] memorabile vittoria conseguita dagli stessi italiani, dalle masse profonde del nostro popolo» (www.collettiva.it). Questa enfasi era comprensibile se rivolta a ottenere condizioni di pace meno dure di quelle che sarebbero state imposte alla Germania. Ma, se allora era comprensibile, il fatto di non nominare mai la sconfitta e la resa senza condizioni dell’Italia ha suscitato negli anni la diffusa convinzione, che io stessa ho potuto verificare, che con la Resistenza noi abbiamo vinto la Seconda guerra mondiale.
Dalla supposta vittoria è derivata una seconda distorsione: il mito della Resistenza tradita nelle sue potenzialità vittoriose-rivoluzionarie, che si è affiancato al mito del Risorgimento tradito. Si stabiliva cioè la continuità tra il primo e il cosiddetto secondo Risorgimento, per cui per esempio a Perugia sono strettamente affiancati il 20 giugno 1859 e il 20 giugno 1944.
È il momento di concludere con due parole sull’oggi, a 80 anni dalla Liberazione.
Nei tempi che corrono, l’allontanamento dalla storia si è accentuato. Come scrive Adriano Prosperi, viviamo ormai in un tempo senza storia. E, lontani dalla storia, assistiamo a diverse strumentalizzazioni del 25 aprile.
Su questo punto vorrei richiamare le parole del grande storico Giovanni Sabbatucci, scomparso di recente. Il 20 aprile 2017 su «La Stampa» Sabbatucci rilevava come negli ultimi anni nelle manifestazioni del 25 aprile si invitavano i militanti della resistenza palestinese e si contestava la presenza della Brigata ebraica. Ma associare i combattenti palestinesi alle celebrazioni per la sconfitta del nazifascismo, scriveva Sabbatucci, significa commettere anche un grande errore storico perché negli anni Trenta del Novecento il nazionalismo arabo cercò e ottenne il sostegno dell’Italia fascista e di Hitler. E dunque la sconfitta del nazifascismo fu in fondo anche la sua sconfitta. Da notare che questo Sabbatucci lo scriveva nel 2017, diversi anni prima del periodo successivo al 7 ottobre 2023 sul quale oggi conosciamo le divergenti posizioni.
Comunque, nel 2023, a Roma ci sono stati tre cortei: quello della destra, con svastiche e fasci littori, scritte contro Israele, i “negri” e i “terroni”; quello della Comunità ebraica e quello dell’Anpi con esponenti dei collettivi studenteschi e delle associazioni palestinesi che esibivano un manifesto con la scritta “25 aprile antifascista e antisionista”. Così, l’anno scorso, l’appello lanciato dal coordinamento “Torino per Gaza” proclamava: “La Resistenza? È quella contro Israele, antifascismo è antisionismo”.
Certo si tratta di minoranze, sia di destra che di sinistra, ciò non toglie che Aldo Cazzullo nel suo libro del 2015 sulla Resistenza, oggi riedito da Rizzoli (Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza), si chieda: «perché gli antifascisti stanno perdendo la battaglia della memoria?». Direi che anzitutto occorre rivedere la ricerca della cosiddetta memoria condivisa, proprio mentre negli ultimi decenni la storiografia ha evidenziato le divisioni della memoria su eventi dati per scontati e condivisi, come talune stragi nazifasciste. Ma su questo si è passati sopra perché alla fine, come scrive sempre Prosperi, le nebbie della memoria sono meno dolorose della storia. L’equivoco della memoria condivisa rende meno faticoso ragionare sulle divisioni del passato come parte di una storia comune. Si tratterebbe invece di celebrare una storia comune segnata appunto da divisioni e da diverse memorie. La pluralità delle memorie come parte di una storia comune.
Storia comune perché segnò per tutti la fine della Seconda guerra mondiale e del nazifascismo, e per tutti il passaggio all’Italia democratica, la quale democrazia, è incontrovertibile, nel bene e nel male è durata ottanta anni.
Vorrei richiamare il discorso di Mattarella di fine anno: «Nel 2025 celebreremo gli ottanta anni dalla Liberazione. È fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione […]. Una ricorrenza importante. Reca con sé il richiamo alla liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia».
Penso anch’io che oggi all’ordine del giorno c’è il problema della democrazia, più precisamente il rapporto tra antifascismo e democrazia perché, come dicevano un tempo gli azionisti, è la democrazia che comprende l’antifascismo e non viceversa.
Bibliografia di riferimento
I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1997.
Le memorie della Repubblica, a cura di Leonardo Paggi, Firenze, La Nuova Italia, 1999.
Maurizio Ridolfi, Le feste nazionali, Bologna, il Mulino, 2003.
Roberto Chiarini, 25 aprile. La competizione politica sulla memoria, Venezia, Marsilio, 2005.
Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005.
Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, a cura di Alessandro Portelli, Roma, Donzelli Editore, 2017.
Massimo L. Salvadori, Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione 1861-2016, Torino, Einaudi, 2018.
Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Torino, Einaudi, 2021.