di Lucio Biagioni
Il mio amico S. è ingegnere informatico. È un pezzo che, da quando se ne seppe qualcosa e si trovò disponibile in rete (in versione ridottissima, precisa lui, perché quel che hanno in serbo non si sa e se lo tengono per loro), tutte le volte che tra noi si parla di ChatGPT gli piglia una inquietudine difficile da descrivere. Non per nulla le magie dei computers networks sono il suo pane quotidiano. Meraviglia, la sua, mista a timore? Ammirazione per un congegno che professionalmente lo affascina, di cui non dubita l’utilità e l’inevitabilità sulla via maestra del progresso, seppur velata dall’interrogativo d’obbligo su che fine faranno tante competenze umane, alias dalla preoccupazione dei posti di lavoro che si perderanno?
Una sera all’incirca dell’anno scorso, quando, come detto, una versione erga omnes di ChatGPT era già nel web, S. me ne magnificò le qualità straordinarie. Inquietanti anche, aggiunse per mostrarsi equanime. Quel che infatti in rete girava era solo un assaggio modesto, ma quel che s’intravvedeva all’orizzonte era una svolta epocale. Molte attività, disse, molti mestieri umani sarebbero spariti. Da laico che, contrapposto a chierico, significa ignorante qual sono, non sapendone quasi nulla commentai con una spallucciata. Per S. fu l’ennesima prova della mia istruzione passée. Avevo poco da fare il furbo, sbottò repentinamente fumino, visto che presto anche il mio decantato mestiere di scrivere sarebbe divenuto obsoleto, come i giornali e i giornalisti, il cui lavoro sarebbe stato fatto meglio dall’Intelligenza Artificiale (in questo gli diedi ragione, visto lo stato del giornalismo attuale); e si spinse oltre, sostenendo che l’IA (o l’AI per gli anglofoni) avrebbe sostituito senza farli rimpiangere anche gli scrittori, perché tra poco sarebbe stata in grado di comporre romanzi e racconti, tra l’altro perfettamente in sintonia con i gusti del pubblico, meglio e più velocemente di loro. Eh no, sbottai a mia volta. Il giornalismo passi. Passi la riproducibilità di quelle tante narrazioni omogeneizzate e seriali che si pubblicano oggi, romanzi e racconti che ognuno, nella slavina di testi che c’è in giro, si ritiene abilitato a scrivere. (La letteratura italiana è in crisi e io non mi sento tanto bene.) Ma c’è un campo, sentenziai, in cui per l’AI il compito è assai più arduo, se non addirittura impossibile.
“E sarebbe?”
“La poesia. Intendo la vera, autentica poesia.”
“L’intelligenza artificiale può riprodurre anche quella.”
“Non credo. Ma non per le solite ragioni animistico-religiose che l’ammantano di divino spirito. È che la vera poesia, se mi passi il termine, è un testo improbabile, imprevedibile, scritta in modo talmente diverso rispetto allo standard linguistico dominante, da renderne impossibile la riproducibilità anche per l’Intelligenza Artificiale: non perché in teoria non sarebbe in grado di farlo, ma perché le combinazioni possibili sono troppe, troppo numerose e irrintracciabili, e per calcolarle ci vorrebbe un pezzo di eternità.” (Non gli citai l’Eterno Ritorno di Nietzsche, perché lo vidi già un po’ alterato.)
“Ah sì? Fammi un esempio. Dimmi il titolo di una poesia.”
Senza molta fantasia pensai a “L’Infinito”, ma proprio sul filo virai su un altro titolo celebre. (Del resto qualche giorno fa in un sondaggio sul livello d’istruzione in Italia un tale ha attribuito l’Infinito leopardiano a d’Annunzio.)
“La Pioggia nel Pineto. Benissimo.” S. si mise a smanettare. “Scrivi La pioggia nel Pineto!”
“Ma che fai?”
Stava dando ordini a ChatGPT.
“È un non senso”, dissi.
Non mi badò e dopo qualche secondo mi porse trionfante il cellulare.
Devo confessare che, a distanza di tempo, il ricordo di quella sera continua a farmi uno strano effetto. Accadde infatti che, schermata sul telefonino di S., comparve all’istante non proprio “La Pioggia nel Pineto”, questo no, ma comunque un componimento che nel contenuto gli somigliava, disposto in versi prosastici non lontani da quelli che scrivono oggidì tanti poeti dilettanti e no, che basta l’a capo per fare il verso: e comunque un testo piano, assennato – nemmeno una parafrasi, semmai un rifacimento un po’ scolorito o che, non so come dire. E che comunque era lì, tirata fuori in un attimo, precisa e senza errori, senz’altro non un plagio, una sorta di rielaborazione semplificata, ch’era sì assai diversa dall’originale, ma non più di quei “libri condensati” che facevano le fortune del “Reader’s Digest” negli Anni Sessanta. (Leggo che il mese scorso un giudice di New York ha respinto il ricorso di un gruppo di editori contro sistemi di intelligenza artificiale, sic, per violazione del copyright: il giudice ha stabilito che i dispositivi generativi, sic, imparano, non copiano.) Restai sbalordito. Non era “La Pioggia nel Pineto”, questo sicuro; la forma piatta, banalizzata, ne deformava e alterava il contenuto. Smargiassai con S.: avevo ragione, non c’era partita con l’originale. Magra consolazione. La parentela, l’approssimazione al testo di d’Annunzio era inoppugnabile. Era comunque qualcosa di stupefacente. Aspetta ancora e vedrai, gongolò il mio amico.
Non ho l’animo di porre a Chat GPT la stessa domanda di un anno fa. A ben guardare gli chiedemmo quella sera di fare come Pierre Menard delle Finzioni di Jorge Luis Borges: Pierre Menard, che impiegò la vita a (ri)scrivere il “Don Chisciotte” – non un “Chisciotte” anacronistico e contemporaneo, ma proprio il “Don Chisciotte” come lo scrisse Cervantes; e non ricopiandolo, cioè trascrivendolo meccanicamente dell’originale, ma cercando di ri-crearlo, parola per parola, esattamente come fu scritto e com’è; cosa che gli riuscì per due capitoli e un frammento, che gli costarono molte migliaia di pagine di approssimazioni e rifacimenti, tappe intermedie che Pierre Menard stracciò o bruciò. Borges, fingendo di commentarla, questa impresa “complessissima e futile in partenza” – ma in fondo, si domandò, che differenza c’è fra il ricordo d’insieme stinto dall’oblio di un libro già scritto e l’imprecisa immagine di un libro progettato? -, la definisce “forse la più significativa del nostro tempo”: riscrivendo il “Chisciotte”, Pierre Menard “si risolse a precorrere la vanità che attende tutte le fatiche dell’uomo.”
Pierre Menard (Ficciones, 1939), parabola ante litteram dell’Intelligenza Artificiale?
E chi lo sa. Ora che Chat GPT (Generative Pre-trained Transformer) si è evoluto nella sua quarta versione, di opinioni ne fioriscono abbondanti ogni dì. C’è chi, come la rivista dell’Eni, la mette sull’umanesimo facile, dicendo che, hai voglia ad essere avanzata e sofisticata, ma l’AI non può competere, mai non fosse, con la magnifica complessità del cervello umano visto che come diceva Pascal l’uomo è sì una canna fragile ma una canna pensante e quindi il vero direttore d’orchestra dell’intelligenza artificiale è il nostro cervello naturale; e chi ammonisce che occhio però di questi tempi alla bolletta energetica di questa tecnologia energivora, che consuma centinaia di megawattore in una settimana, e ci si potrebbe illuminare (siate sostenibili, gente, sostenibili!) una piccola città. E chi denuncia il limite dell’AI nel fatto che, come un golosone che si abbuffa a pranzo e cena, riempe il suo ventre con troppi dati, così che dall’indigestione s’imballa e perde efficienza? Poi c’è il savio, che propone d’investire gli Stati Uniti d’America della santa missione di guidare, attraverso il loro Istituto per la Sicurezza dell’AI, tutti gli sforzi per un retto sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, prima che siano altri paesi, non sia mai, soprattutto del campo avverso, a scrivere le regole della potentissima tecnologia.
In questa parcellizzata babele dove quotidianamente pare che s’imbocchino nella pubblica discussione sentieri a caso, benvenga un libro come “Nexus/ Breve Storia degli Information Networks dall’Età della Pietra all’Intelligenza Artificiale” di Yuval Noah Harari. (Harari, l’autore di “Sapiens”, “Homo Deus” e “21 Lezioni per il 21esimo secolo”, tre best-sellers, soprattutto il primo, 45 milioni di copie vendute in 65 lingue, è finito da un po’ nel mirino della critica accademica amplificata dai giornali, che degrada i suoi libri a “popular science books”, rimproverando all’autore le scorribande compiute a rotta di collo per i millenni e i continenti che, per The Guardian, lo condurrebbero a stipare, 70 mila anni e più di storia umana in 450 pagine. Current Affairs ci va giù più secco, come dicono nella mia Alta Valle del Tevere, definendolo addirittura un “populista della scienza” dai toni profetici, uno di quei “dotati storytellers che intrecciano matasse di fili intorno a ‘fatti’ scientifici in una lingua semplice ed emozionalmente persuasiva, in una narrativa ripulita di ogni sfumatura o dubbio, che si danno una falsa aria di autorità e così facendo rendono il loro messaggio ancor più convincente.”)
Confermando quanto disse Th. W. Adorno, che le discipline universitarie non sono tanto campi di ricerca, quanto unità amministrative, critiche di questo tipo, cui non è forse del tutto estranea l’invidia per le copie vendute, falliscono completamente il bersaglio nel caso di Harari, professore di Storia Medievale alla Hebrew University of Jerusalem, che ha avuto l’ardire di affrontare temi generali che normalmente è buona creanza accademica evitare; per di più ironizzando, con quei suoi sottotitoli che per di più a noi italiani ricordano i famigerati “brevi cenni sull’universo” di gramsciana memoria, sulle future critiche che gli sarebbero venute dall’accademia: reo dunque di aver proposto quadri di sintesi, mai banali e comunque scientificamente fondati e verificati, grazie anche al supporto di un collettivo di specialisti, “Sapienship”, che saggiamente l’autore si tiene stretto con lui gomito a gomito. (Senza i brevi cenni sull’universo, per inciso e senza paragoni, non sarebbero esistiti né Hegel né Giovambattista Vico, e Nietzsche sarebbe rimasto un professorino di filologia a Basilea.)
“Nexus”, discutibile, emendabile quanto si vuole, accusato di sensazionalismo, catastrofismo e persino di apocalitticismo alla Umberto Eco, è un validissimo strumento per chi sia interessato a farsi una idea sullo stato dell’arte dell’Intelligenza Artificiale. Supplisce a quello che non fanno il giornalismo e l’informazione quotidiana: unire i punti, disegnare il quadro globale, fornire “una prospettiva storica più accurata sulla AI Revolution, che è ancora nella sua infanzia”. Sensazionalismo? Catastrofismo? Il problema, dice Harari, non è di privare i computers della loro energia creativa, ma d’indirizzare la loro creatività nella giusta direzione. E gli ingegneri informatici devono avere coscienza del fatto che non stanno semplicemente producendo nuovi strumenti, ma (stanno) per scatenare un nuovo genere di agenti indipendenti. Le reti di computers non sono ancora abbastanza potenti per sfuggire al nostro controllo o distruggere autonomamente la civilizzazione umana; sono comunque una intelligenza inorganica aliena, creano una realtà senza precedenti, e senza precedenti in quanto a scala, nella storia dell’umanità. Umanità, cui l’avvento dell’Intelligenza Artificiale può porre una minaccia esistenziale: non per la malvagità dei computers, ma per le nostre manchevolezze. Se le democrazie collassano, non sarà il frutto di qualche inevitabilità tecnologica, ma del fallimento umano di regolare saggiamente la nuova tecnologia. Ma il problema dei problemi è uno: una specie umana divisa in campi ostili che non sanno intendersi reciprocamente, dice Harari, non è e non sarà mai in grado di evitare guerre devastanti e prevenire catastrofiche crisi climatiche. Un mondo d’imperî rivali, separati, invece che da una cortina di ferro, da una cortina di silicio, sarebbe ugualmente incapace di cooperare e regolare l’esplosivo potere della AI o di altre tecnologie devastanti come la bioingegneria. Sensazionalismo? Catastrofismo? O necessità di dare la priorità, per Harari, ai long term interests di tutti gli umani (e delle altre specie, e degli ambienti, e del clima) piuttosto che agli short interests di pochi?
È lo stesso concetto forte, fortissimo di Papa Francesco (Messaggio di Sua Santità Francesco per la LVII Giornata Mondiale della Pace, 1° Gennaio 2024), quando scrive che “le macchine intelligenti, le macchine che imparano da sole, agiscono sulla base di princìpî nascosti del sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati.” Anche Francesco indulge, come Harari (ma è scusato dal suo santo ufficio), a “brevi cenni sull’universo”. Unisce anche lui i punti, per capire il quadro. E parla di etica, di dimensione etica necessaria, “legata alle decisioni della qualità della vita di tutta l’umanità”, perché disuguaglianze e conflitti non fanno certo il progresso. E ricorda che “l’essere umano è mortale per definizione” (inaudito! scandaloso! nell’epoca che s’industria di rimuovere la morte dalla coscienza collettiva consumistico-mercantile: “l’essere umano mortale”, chi mai oggi lo scriverebbe più, avvezzi ai tanti morti di guerre che non riguardano i privilegiati). Lo fa, Francesco, per marcare il Limite: “il limite contro l’onnipotenza della tecnica che s’illude di travalicarlo, l’ossessione di controllare tutto, la dittatura tecnologica, la mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista.”
E immersi/ noi siam nello spirto/ silvestre/ d’arborea vita viventi;/ e il tuo volto ebro/ è molle di pioggia/ come una foglia,/e le tue chiome/ auliscono come/ le chiare ginestre,/o creatura terrestre.
Polisemie, cumuli di senso, direzioni improvvise, rafforzamenti, ènfasi, lèssici ambigui, sottigliezze distinte, mutazioni semantiche – la combinatoria improbabile e ribelle che sfugge alla profilazione, alla pubblicità, ai media, al pensiero unico, all’ignoranza, al becerume dei socials, ai romanzi surgelati, all’individuo limato e già precotto e pronto per gli algoritmi. La percezione della somiglianza tra idee lontane. La poesia.
La metafora viva ci salverà.