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di Maurizio Tarantino

Alessandro Campi è uno studioso serio, coscienzioso, ordinato e di buon senso. E non ci vuole niente di meno per affrontare due personaggi “pericolosi” come Niccolò Machiavelli e Giovanni Gentile. Dopo aver dedicato studi importanti al primo, Campi ha ora pubblicato un libro su Gentile, raccogliendo e ampliando notevolmente alcuni lavori del recente passato. E occorre dire subito che si tratta di un libro utile e apprezzabile sotto molti punti di vista. È certamente apprezzabile la scelta del titolo, Una esecuzione memorabile, che mette in primo piano la tragica fine di Gentile (ma il libro come vedremo parla di molto altro), e ne fornisce una chiave interpretativa, richiamando una poco nota formula machiavelliana. Apprezzabile, e utilissima, è anche la cura che Campi ha posto nella ricerca e nel confronto con le fonti e con una bibliografia che negli ultimi anni si è andata arricchendo e può senz’altro definirsi assai cospicua. Un confronto molto rischioso in alcuni casi (ad esempio quello con Gennaro Sasso, su cui dirò qualcosa più avanti), ma che Campi ha il merito di non eludere. Una esecuzione memorabile è anche un libro equilibrato, attento nel non cadere in facili attualizzazioni e beceri “revisionismi” (benché lo zelo di alcuni suoi recensori faccia di tutto per trascinarcelo dentro) e ben centrato su una tesi di fondo, dichiarata fin dalla prefazione, e poi distesamente sostenuta nel corso del libro.

La tesi è quella della «coerenza e continuità in senso filosofico e storico-politico di Gentile». Una coerenza non solo riferita «alla dimensione dei valori e dei principî soggettivamente creduti e professati da Gentile, ma anche, anzi soprattutto, alla sua dimensione per così dire pubblico-professionale, al suo ruolo come professore e politico, al suo progetto teso a ricostruire la trama di una cultura nazionale unitaria a misura della realtà statuale unitaria prodotta dal Risorgimento». In sostanza: «coerenza del suo programma di lavoro, filosofico culturale e politico». E così, il programma concepito dal Gentile “organizzatore culturale”, viene «coerentemente condotto all’insegna dell’egemonia e di una concezione “totalizzante”, non “totalitaria”, della cultura»; e anche la sua adesione al fascismo è dettata da «coerenza intellettuale», secondo un disegno dotato di «una sua coerenza e legittimità storica»; e quella alla Repubblica di Salò è finalizzata a «dimostrare, a sé stesso e agli altri, la coerenza, la serietà e il rigore del suo percorso politico e intellettuale». Uno «spirito di coerenza», che forse gli deriva dalla sua terra d’origine, «talmente radicato e forte da sfiorare la cocciutaggine e persino l’ottusità, pur nella più perfetta buona fede». Anche la sua tragica morte è vista da Campi come «la conclusione coerente di un percorso intellettuale»; così come, parallelamente, la sua uccisione «si inquadra e si spiega nella logica, per definizione politicamente spietata, ma a suo modo consequenziale, coerente, razionale, estranea al pietismo come al falso moralismo, di ogni conflitto civile» (I corsivi sono ovviamente miei). 

Una tesi sostenuta con intelligenza, corroborata da fonti interne ed esterne, spesso convincente, ma che tuttavia presenta, a mio parere, alcuni punti deboli che rimandano tutti a una fallacia di fondo. Tra le tante incoerenze del percorso di Gentile (in molti casi segnalate dallo stesso Campi, senza che però queste vengano a intaccare seriamente il suo ragionamento) la più evidente a me pare quella tra la sua filosofia e il fascismo. Il regime di Mussolini, ce l’ha insegnato Renzo De Felice, fu qualcosa di molto mobile e complesso, un organismo all’interno del quale agivano forze differenti tra loro, che trovarono di volta in volta differenti forme di realizzazione. Così, se ad esempio il concetto gentiliano di cultura “totalizzante” poteva in qualche modo accordarsi col “totalitarismo”, pare più difficile trovare coerenza tra la filosofia dell’atto puro e il principio di autorità come pura forza coercitiva. E non è un caso che, come opportunamente nota lo stesso Campi, molti filosofi “di sinistra” (da Agamben a Esposito, fino a Toni Negri) abbiano ripreso l’elemento antiautoritario contenuto nella filosofia gentiliana. Oppure, per citare casi meno teorici, sono decisamente incoerenti con la filosofia di Gentile il Concordato, con l’invadenza della Chiesa, penetrata perfino nella “sua” Enciclopedia, l’infame giuramento imposto ai docenti universitari, la scellerata politica fascista della razza.

Qual è dunque la fallacia di fondo a cui tutte queste incoerenze rimandano? La risposta a questa domanda è in un argomento usato dallo stesso Campi a commento della tesi di Gennaro Sasso, secondo cui l’attualismo è incompatibile col fascismo. Ma se fosse così, ribatte Campi, avremmo «un Gentile per così dire doppio o scisso che non sembra corrispondere a quello reale e storico». Nel leggere questa affermazione mi è subito tornato in mente il ritratto di Lorenzo il Magnifico, abbozzato da Machiavelli nelle Istorie fiorentine e poi ripreso da Roberto Ridolfi per descrivere lo stesso Machiavelli: «si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte». È una pagina (anzi, due) che Campi conosce bene; e quindi fa un po’ meraviglia che uno studioso ben consapevole di quanto una grande personalità sia spesso piena di contraddizioni e “bipolarità”, neghi questa possibilità per Gentile. Sono contraddizioni che non si risolvono, nel caso di Machiavelli, leggendo il Principe con gli occhi di Foscolo, o, nel caso di Gentile, richiamando la “mistica dell’unità” (che pure è un tratto caratteristico del pensiero gentiliano). E neanche appellandosi, di volta in volta, alle pressioni esterne, alla “sicilianità”, al senso dell’onore e della lealtà (anche questi elementi presenti nella sua biografia). L’adesione al fascismo, l’accettazione, sia pure in alcuni casi tacita, delle sue peggiori nefandezze, da parte di un filosofo come Gentile, resta, a parer mio, una contraddizione tanto palese quanto insanabile, che non diminuisce affatto (anzi, semmai aumenta) lo spessore del personaggio e la sua “tragicità”. Resta un’oscurità del suo animo sulla quale, come suggeriva Croce per le allegorie dantesche, andrebbe stesa una tinta neutra.

E infine, visto che si è citato Croce, mi permetto un paio di rilievi che lo riguardano. Il primo è su una domanda che Campi formula in nota al capitolo sul Gentile “organizzatore culturale”: «avrebbe assunto l’Enciclopedia [Treccani] quel carattere pluralistico che come impresa nazionale essa ha avuto sin dall’origine e mantenuto sino ai giorni nostri se a dirigerne il progetto fosse stato, mettiamo, Benedetto Croce? Domanda maliziosa e oziosa, si dirà, ma forse non del tutto campata per aria». È una domanda maliziosa, ma per niente oziosa e campata in aria; semmai più adatta a un elzeviro o a un racconto ucronico di un Philip K. Dick ottimista, che a un libro di storia. È una domanda che ricorda tanto quella che ci facciamo spesso noi romanisti: quanti palloni d’oro avrebbe vinto Totti se a vent’anni avesse accettato di passare al Real Madrid? Beh, per restare nella metafora calcistica, io credo che la Treccani, se fosse “passata” a Croce, di palloni d’oro ne avrebbe vinti parecchi. Perché il pluralismo di Croce e le sue capacità di “organizzatore culturale” non furono certo inferiori a quelle di Gentile. E la prova, senza volerne cercare altre, sono i primi cinquant’anni del catalogo Laterza. 

Anche con il secondo rilievo siamo un po’ nei cieli dell’ucronia. Il contesto è noto: nell’apprendere la notizia della sua uccisione, Croce annotò sul suo diario una tormentata sintesi dei suoi rapporti con Gentile, immaginando per lui un avvenire alternativo, nel quale a Croce «sarebbe spettato, per il ricordo della giovanile amicizia, provvedere, non potendo altro, alla sua incolumità personale e a rendergli tollerabile la vita col richiamarlo agli studi da lui disertati». Una narrazione che Campi giudica di tono «davvero eccessivamente paternalistico», poco in accordo col carattere di Gentile, e incapace di risparmiargli «umiliazioni pubbliche, calunnie, amarezze e accuse d’ogni tipo». A me invece l’ucronia di Croce pare (volendo racchiudere in poche parole un ragionamento meritevole di altro spazio) del tutto assennata, ed espressa col tono di un saggio ottantenne, che sa bene quanto “umiliazioni pubbliche, calunnie, amarezze e accuse d’ogni tipo” possano rendere intollerabile la vita, avendole subite per vent’anni. Ma sa anche che «non è dato morire, pei doveri che legano alla famiglia, agli studi, alla società» (così scriveva sul suo diario nel dicembre del 1925), e che la vita è sempre degna di essere vissuta, finché è possibile leggere e scrivere.