di Tommy Simmons
Mentre il conflitto in Ucraina prende la veste di uno scontro lungo e logorante per entrambe la parti, il suo impatto planetario continua a dare scosse all’assetto geopolitico globale contribuendo ad una più netta definizione degli schieramenti militari, economici ed ideologici già smossi dall’erosione dei principi della globalizzazione e dalla spallata della pandemia di Covid 19. Ma mentre la Russia può contare sul sostegno incondizionato di solo 4 paesi (Bielorussia, Siria, Corea del Nord ed Eritrea) e l’ampia colazione che sostiene concretamente il governo di Kiev oltre ai paesi della Nato, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda gode dell’approvazione dell’ampia maggioranza degli stati che compongono l’Assemblea delle Nazioni Unite, un numero significativo di paesi – anche importanti da un punto di vista economico, militare e demografico – mantiene uno status neutrale, non-allineato, che deve far riflettere.
Visti i numerosi incontri bilaterali avvenuti negli ultimi anni tra il Presidente Russo Putin e la sua controparte cinese Xi Jinping – compreso il viaggio di Putin a Pechino, a febbraio, in occasione delle Olimpiadi, quando i due presidenti hanno ribadito la loro decisa opposizione ad ogni possibilità di allargamento della Nato – e le sempre più frequenti dichiarazioni di “fratellanza” tra le due nazioni, la decisione della Cina di astenersi durante il voto ONU di condanna dell’attacco russo non ha sorpreso. D’altronde, oltre ai crescenti interessi economici tra Russia e Cina, i due paesi sono legati da una comune e storica avversione per “il capitalismo e l’imperialismo occidentali” e dalla dichiarata esigenza di voler riscrivere l’ordine mondiale sulla base dei nuovi, ed effettivi, ruoli che hanno sul pianeta le nazioni che più hanno saputo approfittare dall’apertura degli scambi globali degli ultimi decenni e che hanno modelli di governance diversi dalle democrazie occidentali. Non a caso Putin e Xi sono uniti nel anche nel considerare i propri paesi “vere democrazie” più rappresentative dei desideri dei rispettivi popoli e nel condividere le proprie critiche nei confronti di quelle che vedono come le ipocrisie occidentali; anche all’inizio di aprile, durante un convegno online con la leadership dell’Unione Europea, in risposta alle critiche sugli abusi dei diritti umani in Cina Xi ha ricordato come la stessa Cina ha subito abusi indicibili proprio dai paesi europei mentre il 28 marzo un portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha sottolineato come “è un inaccettabile utilizzo di due pesi e due misure simpatizzare con i rifugiati ucraini mentre si chiudono gli occhi dinanzi ai rifugiati del Medio Oriente, dell’Africa e dell’America Latina”. Sembrerebbe che oltre per via degli interessi economici, questa netta posizione ideologica sia stata adottata per motivare il “non allineamento” nel conflitto russo-ucraino di paesi diversi come il Sud Africa e l’India, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Brasile ed il Messico. Come ha detto recentemente al Washington Post il Professor Chris Landberd dell’Università di Johannesburg, “c’è un crescente numero di paesi sempre più disposti ad affermare la propria indipendenza nonostante desiderino una maggior cooperazione con l’Occidente e hanno anche necessità del sostegno occidentale”.
La “fratellanza” tra la Cina e la Russia non è però finora sfociata in un aperto sostegno militare di Pechino a Mosca e invece di dare una svolta decisa alle sue strategie in risposta alla crisi ucraina la Cina pare mantenere la rotta impostata da Xi Jinping negli ultimi anni. Sin dal primo mandato dell’attuale presidente il paese ha dimostrato una crescente focalizzazione sull’autonomia del suo enorme mercato interno (1,44 miliardi di abitanti), sia in termini di produzione industriale che a livello dei consumi, focalizzazione che si è rafforzata con i primi attacchi verbali ed economici degli Stati Uniti dell’ex-Presidente Trump e poi con la totale chiusura delle frontiere dell’unico paese al mondo che mira ad esistere senza accettare la presenza del virus del Covid 19. Parallelamente, grazie a massicci investimenti statali, la Cina ha l’obiettivo di liberarsi dalla propria dipendenza tecnologica dagli Stati Uniti realizzando una rivoluzione tecnico-industriale che mira a portarla nell’arco del prossimo decennio all’avanguardia dell’informatica, della robotica e dell’automatizzazione dei processi produttivi. E al tempo stesso, sotto la leadership del Partito Comunista, il paese sta intensificando le campagne mirate a rafforzare la propria coesione ideologica e la conoscenza delle sue profonde radici storiche. Il tutto senza tralasciare i suoi obiettivi internazionali con i massicci prestiti (condizionali) e investimenti nella “nuova via della seta”, le sue prese di posizioni aggressive lungo le frontiere ancora contestate con il Nepal (1.400 km) e l’India (3.500 km), un’apparente intenzione di incrementare il suo arsenale di armi nucleari, una crescente presenza in Medio Oriente e un inatteso quanto inedito “patto segreto” con le Isole Salomone che per la prima volta potrebbe offrirle un’importante punto d’appoggio nell’Oceano Pacifico.
Dato che però non tutto sta andando secondo i piani di Xi Jinping – che mira ad essere riconfermato nella sua carica a fine anno – senz’altro il rischio di incorrere nelle sanzioni imposte sulla Russia e di aggravare ulteriormente i suoi rapporti con gli Stati Uniti limita le opzioni di Pechino rispetto a quanto sostegno aperto può dare a Putin. Le conseguenze globali della crisi ucraina hanno portato ad un ridimensionamento delle previsioni di crescita economica della Cina e le imponenti restrizioni imposte dalla sua politica di “zero Covid” hanno addirittura portato alla totale e letterale chiusura in casa della popolazione di Shanghai, il principale centro finanziario del paese; complessivamente circa 150 milioni di cinesi ora vivono in lock-down, con il rischio che altre città debbano iniziare a contenere radicalmente un virus che i vaccini cinesi paiono contrastare con meno efficacia di quelli occidentali. Insomma, proprio nell’anno in cui dovrebbe essere consacrato tra i massimi leader nella storia del paese, il Presidente Xi Jinping forse ha altre gatte da pelare invece di dare un fraterno sostegno alle ambizioni imperiali di Vladimir Putin in base alla loro “amicizia senza limiti”.
Ben diversa è l’informale neutralità dell’India, l’altro colosso asiatico (1,4 miliardi di abitanti) governato dal partito induista di Narendra Modi. Negli equilibri globali l’India rappresenta un fondamentale contrappeso alla crescente influenza della Cina, in particolare nell’ambito della così detta Quad Alliance che comprende anche Stati Uniti, Giappone e Australia, ma al tempo stesso è legata a doppio filo alla Russia dalla quale dipende per la metà delle sue forniture di armamenti e dalla quale continua ad acquistare petrolio a prezzi scontati. Se non fosse per il suo grande mercato e il suo ruolo centrale negli sforzi mirati a contenere la Cina, l’India subirebbe parte delle sanzioni attualmente inflitte dall’Occidente sulla Russia. Invece l’11 aprile il Presidente americano Biden ha incontrato virtualmente la sua controparte Modi glissando sul tema del conflitto in Ucraina e parlando dei “profondi legami tra i due popoli” e dei loro “valori condivisi”. Successivamente il Primo Ministro Britannico Johnson ha visitato Nuova Delhi per avviare le discussioni per un nuovo accordo di libero scambio tra i due paesi, anch’egli diplomaticamente evitando di approfondire il tema delle “divergenze” esistenti tra i due paesi riguardo la Russia a favore della creazione di nuovi spazi economici che valorizzerebbero i benefici dell’indipendenza dalle politiche europee generata dalla Brexit. Insomma, il realismo politico e il pragmatismo economico continuano un po’ ovunque a controbilanciare il desiderio di arginare l’avventurismo militare di Putin mentre ogni nazione cerca di costruire nuovi rapporti a sostegno dei propri obiettivi strategici.