di Gabriella Mecucci
Adesso che è uno dei festival jazz più importanti d’Europa, in tanti lo incensano e ricordano con simpatia l’aneddotica delle origini. Sembra che tutto sia andato sempre liscio come l’olio. Ma non è stato così. Uj fu un azzardo, anche perchè, all’epoca, quella musica che veniva dall’America era poco conosciuta, “elitaria”. Tanto è vero che “La Nazione”, il giornale più diffuso a Perugia, fece un pezzo intitolato “Il Jazz: cos’è?”.
I primi due anni tutto sommato le cose filarono tranquillamente. Poi, quando si gonfiò a dismisura quella fiumana giovanile che sciamava da un luogo all’altro, che riempiva le strutture recettive, che spesso si accampava dove capitava dormendo per strada o dentro ai portoni dei palazzi, gli umbri, pur bonari e schivi di natura, cominciarono ad irritarsi e a percepire quei ragazzi come dei fastidiosi maleducati e dei provocatori. Iniziò un periodo di almeno tre anni in cui spuntarono un po’ da tutte le parti agguerriti critici e più di un nemico. E non mancò chi vide in quei “saccopelisti” sudaticci e “parecchio alternativi”, che si davano appuntamento nella placida e spirituale Umbria, qualcosa di eversivo. Bastarono alcuni episodi di turbamento dell’ordine pubblico – disordini non gravi per la verità – e le piazze che “profumavano” di hashish, per far gridare allo scandalo e mettere in allarme l’opinione pubblica. In quelle critiche dei bempensanti c’erano alcune esagerazione, ma c’era anche del vero. E gli organizzatori giustamente le ascoltarono. Fermarono la manifestazione per riflettere: dal 1978 al 1982 Umbria Jazz non si tenne.
Non si può dimenticare che in quegli anni l’Italia stesse vivendo un periodo terribile: c’era un clima di disordine, di violenza, di paura. Le Br avevano già iniziato a colpire con efferatezza, i cortei del ’77 erano da brividi: slogan truculenti, mentre spesso qua e là sbucavano le P38, che in alcune occasioni sparavano ad altezza d’uomo. E poi arrivò il 1979, l’annus horribilis dell’assassinio di Moro e della sua scorta: una tragedia che pesò come un macigno sulla vita del belpaese. Ovviamente i giovani saccopelisti di Umbria Jazz non avevano nulla a che vedere con queste vicende criminali che terrorizzavano l’Italia, ma in quel contesto, i timori e la prudenza non apparivano mai troppe.
E non era solo questa la ragione che favoriva il proliferare dei dubbi e delle critiche verso la nuova kermesse jazzistica. La Woodstock italiana, infatti, veniva trapiantata in una terra conosciuta per la sua storia spirituale, per la sua tranquillità, per le sue bellezze artistiche e naturali: è proprio del 1973 il lancio del famoso e felice slogan “L’ Italia ha un cuore verde: l’Umbria”. La musica era già di casa nella regione, ma certo non lo era il jazz. C’erano a Perugia importanti manifestazioni quali la Sagra musicale con un programma caratterizzato da austero misticismo, c’erano gli straordinari concerti degli Amici della Musica, guidati da Alba Buitoni (più tardi dal figlio Franco), in cui si esibivano nomi d’eccezione quali Rubistein, Pollini, Cortot, tanto per citarne qualcuno. C’erano a Spoleto gli spettacoli del Festival dei Due Mondi, colti, raffinati, espressione di moderne inquietudini culturali provenienti dall’America, ma anche questi elitari. Che c’entrava Umbria Jazz con tutto questo? Era indubitabilmente tutt’altro: una rottura, uno shock, una vera e propria rivoluzione. Un altro festival, un’altra musica, un altro pubblico. Decine di migliaia di giovani che arrivavano zaino in spalla, erano qualcosa di mai visto prima. Qualcosa che non tutti accettavano. Ma ad arricciare il naso non furono solo i pezzi di società più moderata e conservatrice, ci si misero anche alcuni esponenti della sinistra e persino l’Unità. Filippo Bianchi, il giornalista che scriveva di concerti sull’allora organo del Pci, lanciò più di uno strale contro Uj. In sostanza rimproverava ai suoi compagni di aver messo a capo di un festival con al centro una musica di sinistra come il Jazz, Carlo Pagnotta che di sinistra non lo era. Le frecciate mettevano in qualche imbarazzo i locali dirigenti comunisti che però non si piegarono mai alle indicazioni del loro giornale – segno questo di intelligenza e autonomia. Anzi, successe il contrario: fu l’Unità ad invertire la rotta e a sostenere più tardi convintamente la manifestazione. Filippo Bianchi e Carlo Pagnotta finirono poi col diventare amici.
Dopo quattro anni di riflessione, Uj riaprì i battenti nel 1982, ed era profondamente cambiata. I concerti non erano più tutti gratis e, dopo non poche polemiche, la kermesse si radicò profondamente a Perugia (più avanti a Orvieto in inverno). Arrivarono delle autentiche star internazionali del jazz ma anche del rock e del pop senza snaturare però l’iniziale asse musicale del festival. Le folle diventarono incontenibili, tanto da dover trovare nuove location: dal Santa Giuliana sino, in alcune occasioni, allo stadio Curi. Il successo fu travolgente. E continuò senza interruzione. Ora Uj è una splendida cinquantenne e i suoi anni li porta gran bene. La chiave di volta di questa eterna giovinezza è sapersi rinnovare nella continuità: cambiare formule e strutture organizzative, luoghi, target e perfino tipologie musicali, conservando una solida identità. Nell’età matura, non si può non ricordare il passato con legittimo orgoglio e con la nostalgia che si ha per le battaglie vinte e le difficoltà superate. Lo farà sabato mattina alla Sala dei Notari Carlo Pagnotta, intervistato da Marco Molendini. E, visto che sono entrambi di buona memoria e spiritosi, ci sarà da imparare e da divertirsi parecchio.
Torneranno in mente i soci fondatori di Umbria Jazz. E soprattutto i due che più di ogni altro ne furono gli artefici: Alberto Provantini, assessore alla Regione, che purtroppo ci ha lasciato ben nove anni fa, e Carlo Pagnotta, vivo, vegeto e in ottima forma. Erano una coppia improbabile. Uno, Provantini era un comunista di provata fede, di quelli legati a doppio filo a Pietro Ingrao. Ternano d’origine, amante della battuta, preferibilmente in dialetto, brillava per voglia di fare e per creatività, ma di jazz ne sapeva ben poco. E ci teneva a ricordare a tutti di essere un figlio del popolo della città delle Acciaierie. Grintoso e gaffeur era però davvero bravo: uno dei migliori amministratori che l’Umbria abbia avuto. L’altro, Carlino Pagnotta era l’opposto. Amante dell’eleganza, titolare di un negozio british style che vendeva abbigliamento da uomo di gran marca, era un benestante, appassionato e gran conoscitore di jazz, ma non certo di politica. E, se proprio si doveva schierare, non si posizionava di sicuro a sinistra. Era un po’ snob, figlio del proprietario del “Trasimeno”, allora il ristorante più stellato di Corso Vannucci, famoso per la cucina, la clientela selezionata e per quella foto di Orson Welles e Oriana Fallaci seduti ad un suo tavolo. I due – Provantini e Pagnotta – erano un ossimoro, ma si intesero a meraviglia: ne nacque l’impresa culturale meglio riuscita degli ultimi cinquant’anni di storia umbra.