Le classi dirigenti sono state devastate da un trentennale processo degenerativo che ha portato alla spartizione partitica selvaggia e all’uno vale uno. Il primo “cambiamento radicale” di Proietti dovrebbe essere quello di invertire questa rotta perniciosa.
di Gabriella Mecucci
A guardare i risultati delle recenti elezioni umbre con un occhio “più lungo” rispetto ad una visione cronachistica, emerge un dato macroscopico. Il partito più importante e votato, cioè il Pd, per vincere è costretto a presentare candidati che non maturano al suo interno, ma che provengono dalla società civile. La medesima lezione del resto viene dalla Liguria, dove Andrea Orlando, nientemeno che un ex ministro della Giustizia, è stato sconfitto da un civico di centrodestra: Marco Bucci.
Vuol dire che i democratici stanno avvitandosi in una crisi profonda? In parte sì e in parte no. Le loro percentuali elettorali sono in netta crescita. I cittadini li votano, ma non li vogliono ai vertici più alti. Quanto accade al Pd, in Umbria è successo anche al centrodestra. Appena, un partito organizzato come Fratelli d’Italia ha presentato i propri candidati a sindaco, è stato sconfitto persino da Bandecchi. Ed è tutto dire.
La vittoria, dieci anni fa, di un esponente di Forza Italia come Andrea Romizi fu determinato da due liste civiche, entrambe a loro modo decisive. Molti fatti simili – mutatis mutandis – sono accaduti anche altrove, anche fuori dai confini italiani: che cosa è il fenomeno Macron se non la sconfitta dei partiti e la vittoria di una parte di società civile colta e organizzata? E anche Trump, che pure è rimasto all’interno dei repubblicani, se n’è impadronito organizzando una sua cordata di interessi e di poteri e allontanando tutti coloro che non erano d’accordo con lui, mentre alcuni se ne andavano volontariamente perché vedevano il tradizionale asse politico completamente snaturato. Il nuovo e insieme vecchio Presidente degli Usa ha costruito un raggruppamento vincente – inappropriato chiamarlo partito – tutto suo.
Che cosa sta accadendo? Come e dove si formano le più alte classi dirigenti? E perchè succede tutto questo?
Più di venti anni fa Chistopher Lasch scrisse un libro che vale sempre la pena rileggere: “La ribellione delle élite”. Il sociologo e storico statunitense analizzava l’orientamento dei nuovi tecnocrati, dei grandi manager, degli agenti della comunicazione – tutta gente in grado di condizionare fortemente le sorti della società contemporanea – che non vivevano più in un luogo fisso, ma nel mondo, che non volevano essere condizionati dalle espressioni territoriali. Né da una middle class che giudicavano arretrata, politicamente conservatrice, repressiva nella morale sessuale. La loro rivolta è stata una forte critica alla politica e in alcuni casi anche alla democrazia che per loro natura cercano il consenso del popolo e quindi fanno i conti con le realtà territoriali. Un simile atteggiamento portò anche ad un primo logoramento del ruolo dei partiti e dei sindacati. In Italia tutto fu più rapido e catastrofico perché incrociò Mani Pulite.
A meno di dieci anni dalla pubblicazione de “La ribellione delle élite”, si è sviluppato un movimento della società opposto a quello descritto da Lasch. C’è stata cioè la risposta che va sotto il nome di “ribellione contro le èlite”. Questa si è materializzata con un forte vento populista che ha prodotto la Brexit, Trump, e in Italia Peppe Grillo, il comico del “vaffa” e dell’ “uno vale uno” al quale Casaleggio aveva spiegato l’importanza della rete. I due processi di ribellione hanno finito di devastare i partiti e tutti i corpi intermedi. Una marcia trionfale che ha trovato alleati decisivi nella società liquida, nella rete e in particolare nei social che impazzano regalando una potente capacità di controllo a gruppi ristretti che poco o nulla hanno a che fare con il discorso pubblico democratico, e che si muovono sulla base dei loro interessi, delle loro logiche. Nella sostanza si è verificata la distruzione dei luoghi dove storicamente si formava la classe dirigente politica e si è arrivati persino a sostenere che non era necessario formarla. Molti ricorderanno la risposta che l’onorevole Castelli (Cinque Stelle) dette ad un grandissimo esperto di economia e finanza internazionale come Pier Carlo Padoan, allora ministro del Tesoro, che stava analizzando le ragioni della crisi economica con argomenti interessanti e sofisticati. Castelli gli rispose: “Questa è la sua opinione, la mia è diversa”. E non aggiunse altro. La filosofia dietro tale comportamento è chiara: che tu sia un grande conoscitore delle cose di cui parli e io ne sappia ben poco, non conta niente. Le nostre sono due opinioni opposte ma dal peso equivalente: uno vale uno. La grande competenza di Padoan veniva polverizzata con una battuta. L’asse portante della cultura grillina, nata dalla rete e che ha rapidamente contaminato il resto, riduce tutto a mera opinione. Non esiste più alcuna verticalità. A che serve produrre classe dirigente? I partiti che la selezionavano un tempo sul territorio, che costruivano addirittura scuole per formarla sono diventati così una sorta di ossimoro rispetto a questa logica. Naturalmente non tutti in egual misura, alcuni almeno in parte hanno resistito, ma il trend era ed è inesorabile.
I processi di cancellazione delle territorialità, della politica e del valore della competenza hanno preparato il terreno sul quale si è innestato il nuovo modo di selezionare i gruppi dirigenti: la creazione intorno al leader del famoso “cerchio magico” che viene scelto sulla base della fedeltà e non della capacità. Una bella spinta verso l’abbassamento della qualità. Un simile metodo tende infatti ad emarginare i migliori che preferiscono andarsene. Nasce così la figura dell’uomo solo al comando circondato da una pletora di yes man e yes woman. Il fenomeno ha preso avvio nei partiti, ma ha conquistato anche il mondo dell’informazione e una parte degli intellettuali. Una corsa irrefrenabile verso il peggio.
Mentre i partiti in Umbria, in Italia e in molte parti del mondo percorrevano la strada del precipizio, i problemi diventavano sempre più seri e gravi. Ci si è accorti che c’era bisogno di interrompere la lunga teoria degli incompetenti. E dove si è andati a cercare i nuovi dirigenti? Là dove vengono in qualche modo ancora selezionati i migliori: nelle università, nelle grandi banche, nelle imprese, nei servizi di buon livello e all’interno della Chiesa, che pur vivendo una crisi significativa, resta pur sempre un luogo importante di formazione. In questi ambiti si sceglie qualche nuovo leader che viene però subito circondato e controllato dalla mediocrità che alligna all’interno dei partiti e partitini.
E siamo così ritornati all’Umbria. Sono spuntate due leader rintracciate fuori dai luoghi più tradizionali della politica: la prima è stata Vittoria Ferdinandi (valente psicologa e animatrice di un servizio di cura e reinserimento di malati psichiatrici), la seconda è Stefania Proietti (eccellente ingegnere, docente universitaria). Il rischio è che vengano risucchiate da vecchie logiche spartitorie come è accaduto a molti altri. Occorrerebbe invece mettere in atto una controtendenza. La nostra regione potrebbe così diventare un laboratorio per invertire questa perniciosa rotta. Un “de te fabula narratur”: da un piccolo territorio potrebbe scaturire una grande riforma. Di tale operazione dovrebbero farsi carico i movimenti civici che si sono venuti formando e in particolare Stefania Proietti – Vittoria Ferdinandi qualche passo avanti già l’ha compiuto. E’ questo il primo radicale cambiamento. E senza questo non ce ne sarà nessun altro. Ma se i civici vogliono essere davvero all’altezza del compito, devono organizzarsi, darsi una progettualità che vada oltre il contingente, e non accettare compromessi al ribasso. Devono avere la voglia e il coraggio per affrontare la sfida. Se lo faranno, daranno anche una spinta ai partiti ad autoriformarsi e quindi a rilanciarsi. E la regione diventerà il luogo di un esperimento di valore nazionale e persino internazionale.
Riuscire a fare questa prima radicale riforma è un obiettivo difficile, ma solo così, scegliendo la qualità professionale, l’onestà intellettuale, la territorialità si riporterà la gente a votare. Sia chiaro, un simile problema non si risolverà con operazioni di facciata o pannicelli caldi. Se verrà imboccata la via del manuale Cencelli, della spartizione delle cariche fra i partiti e fra gli amici degli amici, ci si condannerà all’irrilevanza ad alto reddito; all’omologazione, di cui il “sono tutti uguali” è la fatale conseguenza. Questa la scommessa, questo il confine da varcare. Hic Rhodus hic saltus