di Anna Camaiti Hostert
Foto ©Fabrizio Troccoli
Chicago-New York (o Washington se preferite, come sede temporaneamente istituzionale), 1 a 0.
Una partita apparentemente tutta interna agli Stati Uniti tra una Chicago che ha dato i natali al nuovo papa, simbolo dell’America progressista dove sono nati Hillary Clinton, Jesse Jackson, Barack Obama e molti altri leader aperti e innovatori e una New York capitale del mondo dove è nato Donald Trump o una Washington capitale della politica dove risiede l’inquilino della Casa Bianca, citta ambedue adesso immicragnite dalle scelte provinciali e anguste del presidente Trump che dovrebbe invece rappresentare uno dei paesi leader del mondo. In realtà forse però dovremmo dire: Roma-New York o Washington, a seconda delle preferenze 1 a 0. E Roma non solo come citta vaticana che ha inflitto dall’interno un colpaccio alle scelte e ai comportamenti di Donald Trump con una decisione geopolitica lungimirante e internazionalista che ne contrasta la strategia limitata e limitante, ma anche come capitale italiana che attraverso l’unita e il sacrificio dei cardinali papabili italiani manda un messaggio al governo italiano che nella persona di Giorgia Meloni non dice una parola sulle guerre, sui migranti, sui dazi e sta a guardare in silenzio quello che fa il suo alleato, assecondando lo scempio che sta compiendo.
Questa la partita che il Vaticano ha giocato contro Donald Trump vincendola alla grande con un gol segnato nei primi momenti della sfida, dopo solo due fumate nere. Eh sì, perché adesso Il presidente degli Stati Uniti non è il più importante cittadino americano del mondo. Il nuovo papa eletto, Leone XIV, il cardinale Robert Prevost, originario di Chicago, lo è. E per Trump, malato di narcisismo acuto e incessante, è un colpo davvero insopportabile. E lo è doppiamente, non solo perché il nuovo papa lo surclassa in fatto di rilevanza, ma anche perché la prima lingua in cui ha parlato dopo l’italiano è stata lo spagnolo e non l’inglese, unificando l’America del sud e del nord in un solo continente. E questa unificazione viene fatta parlare con la lingua di quella che Trump, in maniera arrogante e presuntuosa, considera la parte meno rilevante e più povera del continente americano e tratta di conseguenza. Un fendente affilato che il papa ha sferrato solo con la sua storia personale contro la dottrina del MAGA (Make America Great Again) e soprattutto contro le ristrettezze identitarie e di mentalità; rivelando che esiste la possibilità di un’apertura a orizzonti più vasti e aperti. Un elemento fondamentale che appartiene alla sua formazione.
Clete Kiley, cappellano sindacalista della Chicago Federation of Labor e consigliere del cardinale Cupich per quanto riguarda i temi del lavoro, conosce molto bene le origini e l’operato del cardinale Prevost nato nel South side di Chicago. E al proposito dichiara: «Le sue radici affondano nelle parrocchie di quella zona che vantano molte famiglie numerose. Qui tra i cattolici di Chicago ci si chiede non da quale quartiere si viene, ma da quale parrocchia. Le famiglie si conoscono attraverso diverse generazioni. In questi giorni tutte le stazioni televisive qui a Chicago hanno chiesto in giro chi conoscesse il papa da bambino o a scuola o sua madre o suo padre. E questo è importante, perché Robert Prevost è sì il ragazzo di quel quartiere, ma anche molto di più. Ha trasceso il proprio quartiere, anche se non l’ha mai perso. È certamente un americano, ma non solo. È come se avesse sposato l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II: la chiesa in America ha riconosciuto in quell’emisfero occidentale un solo continente. Il nord e il sud, tutti e due sono America. Questo papa è stato in missione in Perù da vescovo, ma è ancora il ragazzo di Chicago; rappresenta l’America tutta. La sua visione è quella di un missionario. C’è sempre posto per un “di più” nel senso di scavare sempre più a fondo e in quello dell’ampliare la propria visuale e l’orizzonte della propria portata. E per quanto riguarda il nome scelto quello è già il suo programma. Abbiamo bisogno di una nuova Rerum Novarum in difesa dei lavoratori e del lavoro adatta all’era digitale, cosi come Leone XIII la emanò per l’era industriale».
La Rerum Novarum di Leone XIII fu emanata nel 1891 proprio perché dopo più di secolo dalla rivoluzione francese e dalla rottura del nesso trono-altare che aveva caratterizzato l’operato della chiesa durante i secoli precedenti, la chiesa aveva bisogno di dileguare le forme feudali ancora presenti nel potere ecclesiale e di adattarsi all’avvento della nuova classe borghese che aveva trionfato dopo la rivoluzione francese. Doveva adattarsi alla modernità, rimettersi in discussione e iniziare rapporti nuovi con una società civile con la quale aveva perso contatti e nella quale si agitavano ormai i fermenti delle associazioni dei lavoratori. Doveva collocarsi tra i principi laici del liberalismo e del capitalismo e quelli marxisti del socialismo. E lo fece proprio con quell’enciclica che fu ispirata da un grande economista e sociologo che ne supervisionò la formulazione e ne promosse la diffusione: Giuseppe Toniolo, uno degli artefici della dottrina sociale della chiesa.
Leone XIV avrà bisogno di emanare una nuova enciclica che sulla scia di quella di Leone XIII si apra ai nuovi valori dell’era digitale, promuovendo su quella di papa Francesco, un aiuto al mondo del lavoro di quest’epoca, ai più bisognosi, ai reietti della terra, a quei “dannati della terra” agli angoli del mondo di cui parlava Frantz Fanon, a quelli che nessuno vuole o a cui nessuno tende una mano: a quei lavoratori che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, ai più poveri, ai migranti, a quelli che scappano dagli orrori delle guerre e dei regimi illiberali. Esattamente il contrario della politica di Donald Trump.
Il papa ha già parlato di pace e mi si dirà che non è una novità perché tutti i papi promuovono la pace. Cos’altro possono fare? Ma Leone XIV ha aggiunto a quel sostantivo un participio passato e un participio presente: “disarmata e disarmante” vale a dire non solo una pace privata delle armi, ma anche, nella versione più attiva del participio presente, che renda innocuo l’effetto aggressivo di esse nel presente e dunque nel futuro. E questo è un inizio promettente perché porta a riflettere sulle guerre in corso, sulla necessità di impedire i conflitti e sul fatto che nessuno fa abbastanza per fermare il genocidio dei palestinesi a Gaza dove i bambini stanno morendo di fame e sulla guerra in Ucraina dove il presidente Zelensky è ormai costretto a mendicare aiuto per fermare una guerra assurda e sanguinosa.