Al termine di un’intera giornata di lavori sulla salute mentale, tenutasi nella sala del Consiglio Provinciale di Perugia, Francesco Scotti ha pronunciato l’intervento che segue. Il convegno, organizzato da Passaggi Magazine e dall’associazione culturale Perlumbria col patrocinio del Comune e della Provincia di Perugia, ha denunciato come sia tornata la violenza nella pratica psichiatrica con tanto di malati legati. Come accadeva in un passato che si sperava cancellato per sempre.
di Francesco Scotti
Incomincerò con un ricordo personale. In quest’aula, nel 1977, fu presentato un libro, scritto da Brutti e da me, che era il primo a descrivere l’esperienza di una politica psichiatrica alternativa a quella manicomiale, che si era messa in atto a Perugia, a cavallo degli anni 70. Il titolo di questo libro era Psichiatria e democrazia. Era il titolo voluto dall’editore De Donato (mi ricordo ancora la telefonata da Bari alle sei del mattino). A noi questo titolo sembrava esagerato. Ma devo riconoscere che era realistico e profetico. Esiste un profondo legame tra la democrazia e una psichiatria non violenta che rispetti i diritti delle persone, gestita da una sanità pubblica ma anche co-progettata con la comunità.
Che cosa significa psichiatria non violenta? Che non si leghino i malati a letto, come avviene purtroppo ora anche a Perugia (si chiama elegantemente contenzione meccanica); che non costringano le persone alla cura con un trattamento sanitario obbligatorio ma le convincano a curarsi; che rispetti la persona e non si prefigga di manipolare il cervello.
Voglio anche ricordare che in questa Aula, nel 1965, l’allora presidente della provincia Ilvano Rasimelli, proiettò una lunga serie di fotografie che erano state scattate nell’ospedale psichiatrico di Perugia e che mostravano il degrado della struttura, l’affollamento dei cameroni, lo stato pietoso in cui erano ridotti i ricoverati. Superando ogni contrapposizione politica da lì si avviò un processo di cambiamento dell’ospedale. Il nuovo presidente, appena insediato, aveva fatto una visita all’ospedale e, accompagnato dal direttore di allora, aveva trovato un reparto lindo, ordinato, tranquillo. Il giorno dopo si era presentato alle sei del mattino e aveva fatto, questa volta da solo, un’approfondita perquisizione dell’ospedale scoprendone la natura di girone dell’inferno. Ricordo questi episodi non per folklore ma perché sono esempi chiari di che cosa voglia dire amministrare un’istituzione, di che cosa significhi un coinvolgimento della politica nel buon funzionamento dei servizi. Poi venne il coinvolgimento degli infermieri perché cessassero di essere carcerieri per diventare curanti; venne la presenza di nuovi medici accanto a quelli, già nell’interno dell’ospedale, che avevano avviato la trasformazione. L’ospedale, grazie al coinvolgimento dei pazienti, alla parola che venne loro restituita, e in forma collettiva, non solo individuale, al coinvolgimento della città, alla concreta partecipazione dei cittadini alle assemblee in cui si discuteva il destino dell’ospedale e dei suoi ricoverati, poté essere superato, fino alla sua chiusura, avviando quella politica di salute mentale che, sul piano nazionale, solo nel 1978, con la legge 180, fu legalizzata.
Ho intitolato questo mio intervento “quale futuro con questo passato”. Direi che la mia posizione è scientificamente ottimista ma politicamente pessimista. Sappiamo come si curano le persone, sappiamo che possono essere curati e possono guarire quelli che prima venivano considerati cronici a perdere, da parcheggiare da qualche parte.
Non vedo, oggi in Italia, una volontà politica interessata a creare le condizioni perché questo sia ancora possibile. Questa sera abbiamo sentito i rappresentanti di istituzioni importanti affermare che è possibile un risveglio che porti a considerare il diritto alla salute come un diritto fondamentale. Vorrei precisare che questo è tutt’altro che un discorso puramente ideologico, proprietà di una parte politica, come qualcuno ha sostenuto proponendo modifiche radicali della legge 180.
Aggiungerei, tenendo conto della malattia di cui attualmente soffre tutta la sanità, che la psichiatria può essere praticata efficacemente solo in un servizio pubblico. Non c’è spazio per il privato perché non c’è nessun privato interessato a un progetto così poco remunerativo e in grado di garantire l’integrazione degli interventi multipli spesso necessari e una presa in carico prolungata e competente di situazioni complesse in cui una sofferenza psichica si accompagna a condizioni di vita al limite. Solo un sistema di sanità pubblica è in grado di organizzare e difendere tutto questo, nella misura in cui è in grado di commisurare le risorse ai bisogni e ottimizzare il coordinamento di tutte le istituzioni, sanitarie e sociali, che concorrono a far evolvere una situazione spesso di grande svantaggio.
Quando dico queste cose qualcuno commenta che questa è una psichiatria vecchia, semplicemente perché io parlo di qualcosa che è accaduto nel passato. Io so che questo giudizio vuole essere un insulto ma adesso, ripensandoci, lo considero un involontario complimento perché vecchio si può tradurre con anteriore, precedente, che ha dietro di sé una vita. Si potrebbe tradurre fondato sui fatti e quindi sulle evidenze, come richiede oggi una scienza medica avvertita. La storia ha messo alla prova un tale sistema. Cambiarlo, ridurre la psichiatria a prestazioni frammentate, a esclusiva somministrazione di psicofarmaci, è un danno per il singolo, ma anche per la collettività, perché è una violazione di quel diritto di cui tanto si parla oggi, che è il diritto alla salute.
Per rendere più chiara questa affermazione va aggiunto, che uscendo dall’ospedale, la psichiatria ha incontrato altre sofferenze, oltre quelle che erano state segregate nelle mura dell’ospedale psichiatrico: ha incontrato le difficoltà dei bambini nelle scuole, le sofferenze legate al lavoro degli operai nelle fabbriche, i conflitti nelle famiglie. È per questo che non parliamo di Centri di psichiatria ma di Centri di salute mentale. È la salute che va inseguita: uso questo termine invece di quelli più scientifici di prevenzione, intervento precoce, coinvolgimento dei contesti di vita. Il termine inseguita, che ho usato, mi sembra adeguato a quella medicina di iniziativa di cui si incomincia a parlare, per superare quella medicina di attesa fin ora praticata.
Non sto dicendo che dobbiamo tornare a fare quello che facevamo negli anni 70. Sostengo che questo passato ci deve sostenere per creare un futuro, con la speranza che ciò che è accaduto una volta possa ancora accadere, che vi è novità nei metodi non negli obiettivi. Non partiamo da zero ma questo è vero purché il futuro venga presto, prima che prenda il sopravvento una pratica degradata che rischia di somigliare a quella che caratterizzava la psichiatria dentro l’ospedale psichiatrico, prima della riforma.



