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di Lucio Biagioni

Ci ho pensato sùbito. Non si sarebbe stupito neanche un po’ Carlo Manuali di fronte al delitto di Paderno Dugnano. Il diciassettenne reo confesso che, dopo una tranquilla festicciola di compleanno, smonta a coltellate a ciel sereno “la famiglia perfetta”, uccidendo padre, madre e fratellino. Senza movente. Senza spiegazione. Senza ragione. Senza nulla di nulla. Il nonno che conferma la perfezione familiare: padre attento all’educazione. Madre un po’ severa coi figli (verbosetta, conferma la zia), ma molto presente e premurosa. E tra i due fratelli? Un rapporto idilliaco. Il piccolo che ammira ed emula il “grande”. Un ragazzo, lo esalta la zia, meraviglioso, bravo, ben educato, aiutava in casa, faceva sport. Un delitto che è un mistero, assurdità piena. Non c’è movente. Nessun dissidio. Il sindaco: una famiglia fantastica, felice. E che profili social! A scuola, parola dei compagni tranquillissimo, sveglio, a posto, studioso, droghe per carità d’Iddio. Un enigma per tutti. Ma allora PERCHÉ? (Lo stesso grido che la sfortunatissima Sharon Verzeni di Terno d’Isola avrebbe rivolto al suo occasionale assassino. Che precisa confessando di averle chiesto “Scusa” prima di ammazzarla. Confessava o promuoveva con performance azzardata acchiappa like, la sua canzone intitolata proprio “Scusa”? Che fa proprio così: “Ti chiedo scusa, scusa, ma non so lasciarti andare”?) Né si sarebbe stupito Manuali se, un anno e mezzo dopo la sua morte, avesse potuto leggere il paginone che “La Repubblica” dell’11 dicembre 1994 dedicò al giovane Luigi Chiatti, ribattezzato il Mostro di Foligno, col titolo sparato a quattro colonne che virgolettava l’assurdo: Chiatti: “Sono troppo perfetto”, aggiungendo: “Senza vizî né amici.”. Come non si sarebbe meravigliato della coeva storia di Jack Dahmer, che da “bravo ragazzo americano” divenne il Mostro di Milwaukee; né dei tanti altri casi che seguirono negli anni, assassinii da parte di “bravi ragazzi” che vengono da “famiglie perfette” (tipo Filippo Turetta e molti “Columbiners” dei mass shootings). Fatti di cronaca che seguivo, al contrario di Manuali, per stupirmene ogni volta. Non dei fatti in sé, ma dell’esattezza e della capacità predittiva della sua teoria.

Nel 1978, agli inizi di un’amicizia basata su una consonanza che sarebbe durata fino alla sua morte, lo psichiatra Carlo Manuali, direttore del Centro d’Igiene Mentale di Perugia Centro e protagonista del movimento di quella Nuova Psichiatria che a Perugia, sostenuta dalle amministrazioni locali, aveva condotto alla chiusura del vecchio manicomio, mi propose di scrivere il testo di una relazione da presentare congiuntamente ad un Convegno Nazionale, che si sarebbe tenuto in maggio presso la Sala dei Notari a Perugia. Il tema era “Informazione e Psichiatria”. Io facevo il giornalista, lui lo psichiatra. Ci scherzò sopra: quale team migliore per un compito del genere?
Premetto. Ero e resto un profano in materia psichiatrica. Ero convinto da boria giornalistica di sapere (quasi) tutto della Nuova Psichiatria, che allora infiammava le cronache, e del suo movimento progressivo che, nel nome della universalità dei diritti civili, non avrebbe tardato ad affermarsi. Dovetti ricredermi. La ricerca (“L’immagine della follia nella cronaca della stampa quotidiana”), condotta su una intera annata di quattro o cinque quotidiani, che certosinamente eseguii alla Biblioteca Augusta, e basata sull’analisi degli articoli di cronaca nera in cui fossero coinvolti malati mentali o dove la follia improvvisa fungesse da categoria interpretativa, produsse quei risultati diversi che Manuali sornionamente si aspettava: ciò che ne emerse fu in sostanza che la cronaca giornalistica dei delitti inspiegabili faceva massivamente rientrare dalla finestra quegli stereotipi di cui la Nuova Psichiatria credeva di aver fatto piazza pulita. Forme ed espressioni cristallizzate, luoghi retorici che, semplificati al massimo, facevano rivivere la vecchia teoria psichiatrica e luoghi comuni sulla follia, alla faccia delle rivoluzioni teorico-pratiche delle terapie e dell’apertura dei manicomi. In sostanza risultò che la cronaca giornalistica continuava a rendere alla nuova psichiatria un gran cattivo servizio, confermando stereotipi e reintroducendo lo statuto della vecchia scienza col riappropriarsi inconsapevolmente di categorie superate del discorso medico e dello statuto della passata pseudoscienza. Con poche varianti da un quotidiano all’altro, erano attivi gli stessi meccanismi del racconto, che ordinavano la caotica materia con impressionante omogeneità.
L’assioma nascosto di ogni pezzo era la separazione rigida, la rigorosa opposizione tra Normalità e Follia. Due universi incommensurabili, due stati ben definiti, di cui l’uno è l’antitesi dell’altro. Un ponte collegava il salto tra i due mondi: il “raptus”. Quel marchingegno magico che (forse ispirato all’Áte, l’offuscamento mandato dagli dèi nella tragedia greca) era stato di peso trapiantato dal linguaggio medico a quello giornalistico. Il “raptus” era, e lo sarebbe stato per un bel po’, un passpartout ineliminabile per la coerenza dei pezzi di nera sui delitti non altrimenti spiegabili che con la follia. Il “raptus” infatti è improvviso, non rilevabile da indizî prima dell’esplosione, e colpisce il predestinato come una folgorazione. Indi, ratto com’era venuto, dopo l’azione folle il “raptus” svanisce, in una sorta d’intermittenza della ragione. In quanto furia estranea che esplode nell’individuo isolato, diceva Manuali, il “raptus” garantiva alla comunità il ruolo di spettatrice incolpevole dell’orrore, lasciando intatto l’ambiente in cui si era prodotto. Il predestinato restava isolato, a distanza di sicurezza dai membri del suo gruppo. La normalità stava da una parte, la follia dall’altra, accuratamente divise, senza contaminazione. Veniva così preclusa a priori ogni possibilità di conoscenza di quel nesso strutturale, che lega la follia all’ordine sociale. Quel che infatti veniva occultato era il fatto che la malattia mentale e l’ordine sociale – di cui è espressione il sistema di valori che costituisce la norma – intrattengono un rapporto diretto e speculare che, se negato, conduce dritto all’opposizione fra comportamento responsabile e comportamento irresponsabile, di cui si ha bisogno in questi casi. “Si è reso conto di quello che ha fatto, è consapevole, ma non è corretto dire che era lucido in quel momento” (l’avvocato difensore del diciassettenne di Paderno Dugnano).
Mi vengono in mente tutte le volte che, ripetendolo e precisandolo, Manuali scomponeva e ricomponeva il concetto, aggiungendo ogni volta qualcosa in più: la Normalità che, storicamente data, è solo un caso delle infinite possibilità della Follia. Che la Follia è il luogo della relazione pura e l’origine di ogni stato psichico. Che la Ragione (che è Ragione in un’epoca, Follia in un’altra, continuamente plasmata e trasformata e frantumata dal divenire storico, dai rapporti economico-sociali, dai poteri, dalle mentalità, dalle idee e dalle ideologie) si ritaglia di volta in volta in volta il suo spazio nell’infinito mare magmatico della Follia e dell’Immaginario (termine allora in gran voga). Che la Follia è, in ultima istanza, il rapporto perturbato, non immediato, che ciascuno di noi ha con la realtà. Che la conoscenza della realtà è mediata da codici, senza i quali sarebbe inconoscibile. Che l’uomo, il vivente, è un sistema chiuso che si autoproduce (era il concetto di autopoièsi, su cui lavorò negli ultimi anni fino alla morte, che gli veniva dai nuovi epistemologi, Francisco Varela, Umberto Maturana, Edgar Morin, per citarne alcuni, con i quali ebbe rapporti diretti grazie al costituito, per sua iniziativa, Centro di Epistemologia e di Scienze Cognitive).

Normalità e Follia, diceva Manuali, hanno dunque la stessa radice – non come Basaglia fenomenologicamente convinto dall’inizio che la somiglianza fra “l’individuo normale” e il malato era soltanto apparente e le loro condotte fondamentalmente dissimili; e per questo poteva avvicinare la rivoluzione del manicomio al manifesto della “révolution surrealiste”, e fare del malato (invece di quell’“ipernormale” che diceva Manuali, portatore cioè e rappresentante all’eccesso di quegli stessi valori che stanno alla radice della sua malattia e del suo isolamento) l’antagonista della Norma: e quindi soggetto artistico, rivoluzionario, contraddittore dell’ordine dominante, costruttore, proprio grazie al suo mondo psicotico delirante, della “cittadella dell’utopia”; ed era proprio questo (questa che sembrava una non-differenza, o una sfumatura trascurabile, lo avevo pensato anch’io, nel movimento unitario della nuova psichiatria, invece che la fondazione su cui poggiavano edificî apparentati ma dissimili) che faceva imbestialire Manuali, per il quale il malato era il conformismo sociale scatenato all’eccesso; e infatti nell’estate 1975 al Festival di Venezia fecero Basaglia e lui una gran scagnarata in occasione della presentazione di “Fortezze Vuote”, il film di Gianni Serra sull’esperienza umbra, una corpo a corpo che durò quattr’ore e alla fine si abbracciarono fra gli applausi, Manuali e Basaglia, come pugili stremati al termine di un match senza vincitori né vinti, visto che lottavano entrambi per una grande causa comune.

Qualche giorno fa, cinquant’anni dopo, mi fischiavano le orecchie, guardando, in un telegiornale nazionale, la conduttrice imbarazzata e incerta per la scivolosità del tema chiedere agli esperti lumi esplicativi del delitto di Paderno Dugnano, ma insomma se fin qui il ragazzo era normale cosa è successo, visto che di “raptus” non si parla più nevvero? Sì è vero, rispondeva la psichiatra, ma adesso si dice non più “raptus”, ma più correttamente “impulso”, ma questo impulso cos’è, chiedeva affranta la conduttrice, è qualcosa che sta all’interno del cervello, che si può accertare – materialmente accertabile, intendeva, tanto per far chiarezza, l’impulso materificato che fa tornare alla mente lo sciamano Quesalid descritto da Franz Boas, medico sciamano che per convincere gli astanti della guarigione di un “paziente” fa finta di estrarre un sassolino dal corpo del malato, a sostegno dell’universale bisogno della sostantificazione della malattia.
Il dibattito su follia e crimine, è il caso di dirlo, impazza. Né raptus né impulso né feeling ma “border line”, dice una criminologa (ignara che secondo il New Yorker il “Border line”, in voga per decenni, è screditato anche lui, come del resto tutta quell’etichettatura delle malattie mentali che è il famigerato DSM, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, che le malattie arbitrariamente le crea proprio etichettandole, come prodotti di mercato.) Però “border line”, insiste la criminologa, è senz’altro Moussa Sangare di Terno d’Isola, dice, è una bomba innescata, e chissà quanti ce ne sono in giro. Bisogna rinchiuderli tutti a vita. E nemmeno una saggista brillante di cui solitamente ammiro prosa e acume ha dubbi: “Che cosa ci dice il delitto compiuto da uno che, con problemi psichiatrici, era a zonzo in un paese che si percepisce progredito perché ha la legge Basaglia, invece di sentirsi terzo mondo perché ha solo dieci posti-letto in reparto psichiatrico ogni centomila abitanti?”. Ahi ahi. Il fatto è che Moussa Sangare è nero, italiano figlio di neri, rapper, periferico, descritto come violento e sbandato. Anche il suo delitto “gratuito”, coerente con un ordine sociale di cui fanno parte anche le sub-culture, meriterebbe studio e attenzione. Anch’egli, e quelli come lui, attori e vittime di altri tipi di “devianza”, comunque prodotti, tollerati e funzionali al sistema – dovrebbe rientrare in quel discorso scientifico sulla malattia mentale, che secondo Carlo Manuali si definisce articolandosi sull’indagine della “normalità” che la produce. Un conto, diceva, è rapportare il folle alla psichiatria, un conto è coglierlo in rapporto alla famiglia, alla scuola, a tutti i meccanismi sociali che in qualche modo intervengono su di lui. La produzione della follia, diceva, rimane oscura, se la sua iscrizione nell’universo dei rapporti storico-sociali che producono la normalità non viene – scientificamente e non velleitariamente – chiarita nei molteplici livelli del suo funzionamento (famiglia, educazione, scuola, lavoro, costumi, culture, ideologie), in un atteggiamento critico perpetuo saldato con l’azione politica. Questo era il programma di Carlo Manuali. Dalla teoria della personalità alla teoria della società. Una psichiatria che trascendeva se stessa, e si dissolveva nella scienza e nell’azione (politica?) universalmente tesa al bene comune.
Il diciassettenne di Paderno Dugnano confusamente racconta che avrebbe voluto fuggire, rendersi indipendente dalla famiglia che lo opprimeva, e non sapeva perché. Lavorare, partire. Fantasticava di arruolarsi per combattere dalla parte giusta nelle guerre che lo turbavano e che ci turbano tutti. Magari l’avesse fatto, fosse fuggito.
Manuali scherzò una volta (era il 1974 pre-crisi) che se i miliardi spesi per i medici fossero stati dati ai malati, per costruirsi una vita propria, si sarebbe risolto ogni problema d’istituzione totale. Il problema della malattia mentale sarebbe rimasto, certo, ma avviato lungo un itinerario, un destino, e probabilmente una geografia, aggiunse, totalmente diversi. “Con lo stipendio che prendo io”, disse, “ci si fanno sùbito cinque sani di mente.”