di Gabriella Mecucci
Dopo la caduta di sessant’anni fa, si cerca di reinserirlo nel pantheon dei grandi pittori rinascimentali. Ci provò con buoni risultati una mostra che si svolse nel 2013 fra Perugia, Città di Castello e Orvieto. E ora ci riprova Cortona – luogo di nascita di Luca Signorelli – nel quinto centenario della sua morte. Non è un’impresa semplice quella di farlo riemergere dal “buco nero” in cui precipitò a causa di un clamoroso incidente. Eppure, giganti quali Michelangelo e, più tardi, Siegmund Freud furono suoi grandi estimatori.
Il pittore toscano, amante della vita, delle belle donne, e dei robusti guadagni uscì a pezzi settant’anni fa da una diatriba senza esclusione di colpi fra famosi critici. E pensare che prima del clamoroso scivolone, la sua fortuna era stata straordinaria. A partire dagli elogi di Vasari che scrisse: Michelangelo “Imitò l’andar di Luca”. Cioè, il più grande e più celebrato artista avrebbe tratto ispirazione da Signorelli. Da lui avrebbe preso suggestioni e idee per dipingere il “Giudizio universale” della Cappella Sistina. Ma c’è di più: fu “tanto famoso… quanto nessun altro in qualsivoglia tempo sia stato giammai”, parole sempre di Vasari.
Dalle stelle alle stalle. Dopo cinque secoli di gloria, si arrivò alla brutta storia del 1953. In quell’anno di grazia organizzò una grande mostra che soggiornò per due mesi a Cortona e per altri due a palazzo Strozzi a Firenze. Ma l’intera operazione culturale venne stroncata da studiosi del calibro di Carlo Ludovico Ragghianti, di Roberto Salvini, di Alberto Martini. La critica più diffusa riguardava il fatto che non era stato ben evidenziato il ruolo avuto “dalla bottega” signorelliana in parecchie delle opere radunate a Cortona: mani meno raffinate che avevano dipinto pale e affreschi più scadenti. Del resto, l’illustre cortonese godeva di grandi committenze e doveva far presto. Metteva dunque a lavorare di buona lena tutti i suoi allievi.
Se le critiche si fossero limitate a questo, avrebbero dato luogo solo ad un interessante dibattito culturale. A un certo punto però prese carta e penna Roberto Longhi, il principe degli storici dell’arte, e la musica cambiò: arrivò la “tegola” che seppellì Signorelli. Con un saggio carico di vis polemica, l’illustre professore spiegava che, per il manifesto con cui era stata lanciata la mostra di Cortona, gli organizzatori avevano scelto un’opera che non era del pittore toscano. Roba da non crederci: si trattava di un clamoroso abbaglio. Il blocco di laterizio che riproduceva l’autoritratto di Signorelli e il volto di un camerlengo orvietano era stato in realtà dipinto – secondo Longhi – da due artisti tedeschi nel 1845. Si trattava di due “romantici”, estasiati dalla bellezza della Cappella di San Brizio, che si fermarono a lungo a Orvieto e che decisero di “omaggiare” la grandezza di Signorelli ritraendolo, insieme al camerlengo, su quel mattone. Il colpo era di quelli mortali. Partì da questo clamoroso incidente una polemica distruttiva che non si fermò alla mostra, ma investì l’artista, giudicato “vuoto” e “esteriorizzante”. Detto in una parola, senz’anima. A poco valse la fama del passato. Da quel terribile 1953 non ci fu più una rassegna sul pittore toscano sino a quella di Perugia del 2013 e quella in corso ora a Cortona, nel quinto centenario della sua morte. Il primo tentativo di riscatto lo fece la Galleria Nazionale dell’Umbria. Arrivarono quadri da tutto il mondo (una novantina di pezzi) – dal British (fra gli altri, i disegni per la Cappella di San Brizio), da Boston, dal Metropolitan e via elencando. Ma anche da mezza Italia: dalle Marche, da Cortona, da Arezzo, da Firenze: insomma da tutti i luoghi dove il pittore lavorò. La mostra mise bene in luce il rapporto di Signorelli con Piero della Francesca che fu il suo primo maestro. E al tempo stesso ne sottolineò anche la modernità. I curatori usarono definizioni come “straordinario regista”, “autore del primo disaster movie” “vero talento nel costruire il palcoscenico”. E in effetti Luca d’Egidio di Ventura – questo il vero nome di Signorelli – era dotato di una straordinaria teatralità. Questa fu la cifra stilistica che scelse dopo due importantissime esperienze di formazione: quella della Cappella Sistina, insieme ad un pool di “geni pittorici” e quella della bottega del Verrocchio, frequentata da Leonardo, da Botticelli, da Perugino, da Ghirlandaio – una “compagnia” insuperabile.
La mostra di Cortona (23 giugno-8 settembre 2023), curatore Tom Henry, Università del Kent, è più piccola di quella che venne allestita a Perugia – una trentina di opere radunate in due stanze – ma non manca certo di fascino. Ci sono quadri eccezionali quali l’Annunciazione (proveniente da Volterra) e l’Adorazione di Gesù, prestata da Capodimonte ma originariamente dipinta per la chiesa di sant’Agostino a Città di Castello. Ci sono tele provenienti dalla National Gallery di Londra e dal Museo di Dublino. Si possono vedere due preziosi pannelli della “Pala di Matelica” – i cui pezzi sono finiti in diverse città del mondo. E gli Uffizi hanno prestato tre parti del “Polittico della chiesa di Santa Lucia a Montepulciano”. Ma nell’anniversario della morte, non si può dimenticare il Signorelli umbro: quello di Città di Castello, di Umbertide così come quello del museo diocesano di Perugia.
Ma soprattutto la sua opera più straordinaria: il “Giudizio universale” della Cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto. Il programma dei lavori degli affreschi venne messo a punto in una situazione torbida, drammatica. Era il 1499-1500, biennio di spasmodiche aspettative millenaristiche che non mancavano di trovare conferme nella paurosa realtà quotidiana: tra i fatti più recenti non cessava di turbare il rogo fiorentino su cui era bruciato Savonarola. L’atmosfera cominciava a impregnarsi di forti tentazioni “riformistiche” che ebbero la loro espressione piena una ventina di anni dopo con Martin Lutero. Signorelli, quando ereditò la Cappella di San Brizio, iniziata da Beato Angelico, soddisfece subito gli orvietani. Innanzitutto perché lavorava con straordinaria rapidità. Allora gli affreschi venivano realizzati con la tecnica del cartone, ma lui non ne aveva bisogno: dipingeva a fresco, di getto. E, quindi, fatto il disegno, passò subito al pennello. Ne venne fuori un Giudizio Universale carnale e apocalittico: in alcune parti la pittura era meno perfetta, più “sciatta” di quella de grandi artisti coevi, ma in altre aveva un impatto potente che colpì e conquistò i committenti. La sintonia con questi non era probabilmente solo legata all’efficienza e all’efficacia scenografica, ma anche al merito: alla teologia, cioè, che ispirò la Cappella. Sebbene le immagini apocalittiche di San Brizio possano far pensare che anche il loro autore fosse percorso da tensioni pre riformistiche, in realtà il pittore cortonese era un convinto antisavonaroliano: era stato del resto molto legato ai Medici, grandi nemici del predicatore domenicano.
Michelangelo dipinse la Cappella Sistina una quarantina di anni dopo (fra il 1540 e il 1545), quando la chiesa di Roma viveva il periodo più intenso di lotta contro la “riforma”. E l’artista, che pure in passato aveva prestato orecchio a tentazioni eterodosse, si scagliò col suo pennello contro Lutero. Il suo Cristo non ha sembianze misericordiose, ma è una figura atletica, forte, da supremo giudice che assolve e condanna. Come a dire: attenti, l’eresia porta all’inferno. Buonarroti si schierò dunque dalla parte del Papa, così come aveva fatto Signorelli. Prima di iniziare il suo lavoro alla Sistina, visitò più volte la Cappella di San Brizio e ne fu profondamente suggestionato e forse anche influenzato. A proposito di modernità, merita di essere ricordata non solo la passione che Luca da Cortona ingenerò nei romantici, e l’attenzione che ricevette dagli espressionisti, ma anche il forte impatto che ebbe su Sigmund Freud. Il padre della psicoanalisi in uno dei suoi numerosi viaggi in Italia si recò a Orvieto proprio per visitare la Cappella di San Brizio. Era inquieto come spesso gli accadeva quando doveva incontrarsi con opere che richiamavano la religione cattolica, ma decise lo stesso di fermarsi. Salì in duomo e ne rimase affascinato. Ammirò lungamente le storie dei dannati e, soprattutto, osservò la figura dell’Anticristo. Il Cristo, che aveva come suggeritore il demonio, lo stimolò a riflettere sul concetto di “doppio perturbante”, sull’altro io dell’io. Qualora non elaborato il Doppio collassa nel Demoniaco e si trasforma – secondo Freud – in una falsa identità. Quando uscì dalla Cappella di San Brizio, sembra che lo scienziato – viaggiatore fosse tanto turbato da decidere di non andare a Roma e di mutare il percorso del suo viaggio. Quella visita condizionò i suoi studi sul complesso di Edipo – come sostengono allievi e studiosi. Si verificò inoltre un episodio che costrinse Freud a riflettere a lungo sulla memoria. Mentre infatti ricordava perfettamente gli affreschi e le sensazioni avute guardandoli, aveva dimenticato il nome del pittore che li aveva realizzati. Perché era accaduto un simile fenomeno? Su questo interrogativo scrisse pagine e pagine di autoanalisi. Restò però sempre fermamente convinto che quelli di Orvieto fossero “i dipinti più belli che abbia mai visti”.