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Di recente è stato firmato l’accordo fra Regione Umbria e Regione Toscana per l’apporto idrico al Trasimeno delle acque di Montedoglio che potrebbe iniziare già in ottobre. Diego Zurli, uno dei più seri conoscitori dei problemi riguardanti il lago e i tentativi per risolverli, svela tutto ciò che è accaduto nei decenni passati, e il perché si è arrivati in ritardo alla firma dell’intesa fra le due Regioni. Lo fa nel corso di tre puntate dense di particolari semisconosciuti: si tratta quasi di un romanzo. La narrazione inizia dalla fine: dallo stato attuale del Trasimeno e da cosa occorre fare per difenderne la salute.  

di Diego Zurli*
Foto ©Fabrizio Troccoli

Le evoluzioni più  recenti

Si farà un breve cenno, prima di concludere, sui recenti sviluppi dello schema idrico e i   sui progressivi adattamenti introdotti per soddisfare nuovi  usi e bisogni. 

Secondo le stime di alcuni autorevoli centri di ricerca e di studiosi del calibro di  Giulio Boccaletti e Andrea Rinaldo, l’Italia conoscerà nei prossimi anni una forte variabilità delle precipitazioni: avremo troppa acqua quando non serve e non ne avremo abbastanza quando, al contrario, ne avremmo grande bisogno. Le infrastrutture di cui disponiamo potrebbero essere non più adeguate: penso non solo alle grandi dighe che in Italia hanno in media settanta anni di vita, agli acquedotti o alle stesse opere di difesa idraulica dimensionate su tempi di ritorno probabilmente non più affidabili. La sfida del nostro tempo è pertanto quella di dotare il paese di nuovi strumenti e, all’occorrenza, anche di nuove infrastrutture che permettano di affrontare uno scenario d’insieme che si sta rapidamente modificando attraverso  una pianificazione di lungo periodo che tenga conto di nuovi profili di rischio, una diversa gestione del territorio e delle sue risorse, investimenti in opere idrauliche di nuova generazione che mettano in conto precipitazioni maggiormente  variabili: accumulando acqua quando piove, per poterne disporre quando non c’è per rispondere allo sfasamento ormai conclamato tra domanda ed offerta, tra  bisogni e disponibilità.  

Quando fu realizzata la diga di Montedoglio e le sue grandi reti di adduzione, la preoccupazione dei progettisti e dei loro committenti era quella di soddisfare i fabbisogni irrigui per i quali l’opera era stata pensata. Ma se osserviamo oggi questa stessa opera, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua realizzazione, all’originario uso irriguo   si sono progressivamente  aggiunti quello idropotabile e  la regolazione  fluviale tramite la  laminazione delle piene, rendendo inoltre possibili attività e usi che in genere non vengono considerati ma che rivestono ugualmente grande importanza.  Tra queste, quelle derivanti  dalle trasformazioni sul paesaggio  indotte dalla presenza dell’acqua, che genera attrattività grazie alla percezione che la presenza di un grande corpo idrico determina sull’immaginario collettivo;  ed ancora  la produzione di energia da fonti rinnovabili, il mantenimento di una portata di deflusso costante – anche in periodi siccitosi – che ha favorito la nascita di un parco fluviale che ospita stabilmente e consente il ciclo biologico di specie ittiche  pregiate;  infine, nel caso delle misure contenute nell’intesa tra Umbria e Toscana,  anche la futura  possibilità  di contribuire, in qualche misura, al mantenimento dell’equilibro idrologico del bacino del Trasimeno.

Tutto questo,  non era certamente  nelle intenzioni di chi, inizialmente, aveva concepito questa grande opera per rispondere alle esigenze  della società di ieri e che nel frattempo era cambiata esprimendo nuove aspettative e bisogni. Occorre sottolineare anche  il fatto che, senza alcune grandi opere come  Montedoglio  e le reti che si diramano in Umbria ed in Toscana (ma lo stesso discorso vale per l’altra parte dello schema in fase di attivazione che interessa solo l’Umbria   prendendo origine dall’altra grande diga sul Chiascio di cui ci occuperemo in un’altra occasione), potremmo in futuro ritrovarci in condizione di grande difficoltà per fronteggiare la minaccia  dei mutamenti climatici.  L’acqua rappresenterà, in un futuro ormai prossimo,  un fattore decisivo per la conversione ecologica. La sua importanza strategica, insieme alle infrastrutture che ne consentono l’utilizzo,  è programmaticamente simboleggiata anche dallo stesso cambio del nome dell’ Ente concessionario, partecipato dalle Regioni Umbria e Toscana e dal Ministero dell’Agricoltura  della Sovranità Alimentare e delle Foreste,  che ha assunto il nome di “Ente Acque Umbre Toscane”. In ciò volendo significare  un compito ed una missione, in gran parte diverse da quelle originarie,  che fa della sostenibilità nell’uso della risorsa e della capacità resiliente di adattamento ai bisogni di  una società in rapido mutamento, grazie anche  al controllo e al governo pubblico delle infrastrutture idriche, la ragione stessa della sua esistenza e della sua rinascita. 

Ed infatti, osservando oggi lo schema realizzato nel modo in cui si è andato progressivamente ampliando e  trasformato grazie agli ulteriori investimenti, che lo Stato  è stato in grado di garantire con continuità, si comprende immediatamente che possiamo beneficiare di un insieme di opere, che si sono adattate progressivamente nel tempo per rispondere alle nuove necessità mantenendo, nel contempo, le loro originarie finalità di sostegno all’economia agricola per  accompagnarla verso  una nuova stagione di sviluppo.

Torniamo al Trasimeno, il protagonista del nostro racconto,  che ho titolato in senso provocatorio “il Malato Immaginario”.  La ragione, è che non ho trovato niente di meglio che riproporre lo stesso impiegato anni or sono in alcuni saggi, animato da un  senso di fastidio  nel vedere  alcuni organi di informazione rappresentare in modo semplicistico, un ecosistema di grande valore e complessità, ad ogni abbassamento del livello idrometrico: un fenomeno noto tanto agli studiosi che  ai comuni cittadini che   si ripete ciclicamente, con  alcune trascurabili variazioni, da qualche migliaio di anni. E’ lecito infatti domandarsi se aveva un senso definire in modo così approssimativo il comportamento, del tutto fisiologico, di un ambiente come quello di cui ci stiamo occupando: cioè continuando  a rappresentare in termini di altezza della colonna d’acqua – misurata sulla fatidica  soglia di 257,33 s.l.m. (che, come forse molti ignorano, è la quota stabilita convenzionalmente dagli enti preposti alla gestione del demanio) – lo stato di salute di un ecosistema di grande complessità e di eccezionale qualità ambientale.

Mi chiedo anche se ancora esista davvero qualche sprovveduto  disposto a credere che qualche decina di centimetri in più o in meno sul cosiddetto zero idrometrico possa certificarne lo stato di salute o di malattia, la sopravvivenza, il declino o addirittura la morte.  Insistere in questa rappresentazione riduttiva, può infatti risultare fuorviante per riuscire a comprendere e soprattutto a governare  la notevole complessità insita nei problemi connessi alla gestione di un territorio nel quale,  la stessa vita delle comunità insediate,  non è stata mai semplice. Temo soprattutto che, a furia di ripetere che il Trasimeno è malato, rischiamo anche noi di convincerci della sua permanente condizione di indigenza;  una rappresentazione distorta che, rimbalzando  sugli organi di informazione e sui social, per via di  titoli del tipo “Trasimeno: emergenza nazionale”, “Il Trasimeno muore di sete” , “Lago in ginocchio”, “Il Trasimeno boccheggia in lenta agonia” , “Quello del lago è disastro ambientale!”, “Crisi idrica: non c’è speranza per il quarto lago d’Italia”,  (i titoli, di qualche anno fa,  sono assolutamente autentici), rischia di procurare conseguenze  nefaste e pregiudizievoli per la stessa economia. Oggi, per fortuna, si percepisce maggiore attenzione e grande prudenza nel pronunciare diagnosi affrettate come quelle che capitava di leggere solo qualche anno fa. Ma la tentazione è sempre molto forte e, anche per questo,  tenere a mente ciò che di buono è stato fatto e ciò che di nuovo si sta faticosamente cercando di fare, non rappresenta un esercizio inutile.  

Il lago è un ambiente in cui ambiente palustre e ambiente lacustre convivono insieme: c’è il lago vero e proprio e c’è la palude intorno ai canneti di Sant’Arcangelo”.  Questa sintetica e  brillante definizione,  coniata alcuni anni or sono in occasione di una conferenza dall’ing. Ilvano Rasimelli, ci aiuta a capire che il Trasimeno non è esattamente un lago come gli altri, come il lago Maggiore o quello di Garda per intenderci,  ma un ecosistema  fragile   che richiede attenzione e azioni mirate da portare avanti con determinazione e, soprattutto, con  continuità.   Il nocciolo della questione, dal mio punto di vista,  è che l’escursione dei livelli idrometrici che avviene da migliaia di anni, è difficilmente contrastabile ma non costituisce di per se stessa il problema maggiore pur  determinando criticità assai evidenti per le attività umane che dal territorio lacustre traggono la loro principale fonte di sussistenza. Purtroppo, facciamo infatti fatica ad ammettere  che le attuali modalità di sfruttamento in chiave economica  delle risorse di questo territorio, risultano talvolta non del tutto conciliabili con le peculiari caratteristiche di questo ecosistema. La cui unica colpa – se così vogliamo definirla –  è quella di entrare sempre più  in conflitto con i nostri interessi e i con nostri comportamenti consolidati.

Dobbiamo infine toglierci dalla testa che esistano soluzioni magiche o miracolose in grado di risolvere, come d’incanto,  tutti i problemi – veri o presunti – cercando di affrontarli nel loro insieme e nella loro complessità.  Tutto ciò che nel tempo è stato faticosamente realizzato – che  come racconterò nelle prossime puntate, non è poco – o quanto di nuovo e di meglio ci si propone di fare è sicuramente utile anche se probabilmente da solo non risolutivo:  garantire una migliore e continua manutenzione della rete drenante in grado di agevolare il deflusso delle scarse precipitazioni sarebbe certamente una misura efficace ed auspicabile (magari  ricomprendendo l’intera area interessata dal bacino in un comprensorio di bonifica, come fu nel passato, per assicurare l’indispensabile  continuità delle risorse); è stato indubbiamente utile ampliare il bacino imbrifero dopo la crisi del 1958 anche se, come hanno chiarito autorevoli studiosi come Walter Dragoni, il Trasimeno sarebbe tornato  lo stesso alla fatidica quota di 257,33 anche senza   le opere realizzate le quali, di converso,  aggravano il processo di interrimento; è stato utile eliminare i prelievi per scopi idropotabili, anche se il suo effetto è quantificabile in pochi centimetri e, soprattutto,  sarà finalmente determinante eliminare del tutto  gli attingimenti irrigui perché, a quanto ci risulta, gli impianti realizzati vengono scarsamente utilizzati; sarebbe indispensabile, inoltre, cercare evitare l’accumulo di sostanze nutrienti sui limi di fondo attraverso un efficace trattamento degli scarichi civili –  in gran parte già realizzato – e soprattutto l’azzeramento dei reflui zootecnici;  risulterebbe probabilmente decisivo, per le finalità connesse ad una maggiore stabilizzazione dei livelli idrometrici,  l’ulteriore apporto idrologico che potrà giungere dal bacino del Chiascio sulla base dello studio elaborato a suo tempo dal Prof. Lucio Ubertini e dai suoi collaboratori, che andrebbe portato avanti con maggiore convinzione. Queste erano solo alcune delle cose da fare che il Piano Stralcio, chiuso per sempre in un cassetto, aveva puntualmente elencato. Riprenderle in considerazione, attuandone le parti non ancora realizzate, è la sola strada che nel tempo può dare i risultati attesi.  

In questo contesto, anche il modesto apporto idrico da Montedoglio  che potrà derivare grazie all’intesa raggiunta tra le due Regioni,  potrà nel tempo  offrire un ulteriore contributo alla stabilizzazione dei livelli evitando però di ritenere  che questa rappresenti la soluzione del problema, dimenticandoci di  affrontare tutto il resto.

Un grande intellettuale del nostro tempo come Edgar Morin, ha scritto che la complessità è un modo di pensare e comprendere la realtà che rifiuta la semplificazione e cerca invece di cogliere le interconnessioni, le interdipendenze e l’incertezza presenti nei sistemi sociali, culturali o ambientali La sua gestione   consiste nel non semplificare la realtà, ma nell’imparare a convivere con essa, accettando la sua ricchezza, le sue contraddizioni, le sue incertezze adottando un pensiero  che tenga conto dei legami tra le parti e il tutto.  

Ecco perché, facendo tesoro di questa lezione, governare un ecosistema complesso come il Trasimeno non può limitarsi a ridurre il problema, pur necessario, di recuperare qualche centimetro in più per raggiungere l’agognata quota del 257,33 sul livello del mare.

Prima puntata. Segue

*già direttore Ente Acque Umbro Toscane e già direttore Infrastrutture/Trasporti della Regione dell’Umbria