di Diego Zurli*
Ho raccolto con piacere l’invito rivoltomi da questa rivista a portare un personale contributo al dibattito avviato con l’articolo di Filippo Tantillo sul Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne redatto dagli uffici ministeriali che definisce le politiche a favore dei piccoli comuni italiani.
Tralasciando ogni facile ironia circa l’infortunio – poi tardivamente corretto – in cui è incappato il Ministero stesso con la frase infelice contenuta nel Piano dove si prevedeva che alcune aree interne andrebbero accompagnate per mezzo di misure palliative alla loro estinzione, occorre tuttavia notare che, senza quell’uscita maldestra, le questioni inerenti le aree interne, le politiche di coesione e i piccoli comuni montani o rurali non sembravano aver destato eccessivo interesse nell’opinione pubblica e negli stessi addetti ai lavori.
Eppure, la nascita della Strategia Nazionale delle Aree Interne, all’atto della sua originaria definizione, aveva suscitato non pochi entusiasmi rappresentando una delle maggiori novità introdotte dal Governo, per mano del Ministro in carica Fabrizio Barca, nell’ambito delle politiche di coesione per il settennato 2014-2021.
Come ci ricorda Filippo Tantillo, i Comuni che fanno parte delle aree interne regionali sono 59, che corrispondono a circa 64% dei 92 comuni umbri e la cui popolazione è pari al 26% della popolazione totale regionale, all’incirca 226 mila abitanti. Una partita di notevole importanza rispetto alla quale l’Umbria si è da tempo prontamente attivata per la candidatura delle aree da sostenere.
In questi giorni, un incontro promosso dall’associazione Nuove Ri-Generazioni e dalla FILLEA -CGIL, ha cercato di rimettere nuovamente al centro dell’attenzione, accanto alle iniziative strategiche per la rigenerazione fisica e sociale degli insediamenti urbani, la proposizione di nuove idee a favore delle cosiddette aree interne localizzate principalmente nei piccoli comuni italiani.
Tra i numerosi spunti di riflessione scaturiti dal confronto, è stato osservato che la SNAI – oggi denominata P-SNAI – sembra ovunque registrare non poche difficoltà del decisore politico/amministrativo nel definire forme di politiche pubbliche innovative, come quelle attivabili per mezzo della predetta Strategia, generando scarsa fiducia nella classe dirigente centrale e locale.
Una delle possibili cause, sarebbe riconducibile al fatto che quest’ultima sembra purtroppo configurarsi sempre meno come “strategia” – cioè come visione in grado di offrire alle comunità una prospettiva di medio/lungo periodo – e sempre più come “gocciolamento dall’alto” di risorse pubbliche contraddicendo l’originale approccio “placed-based” finalizzato al pieno coinvolgimento di cittadini e attori locali nel processo di definizione delle politiche territoriali.
E’ stato anche osservato che, lo stesso allargamento del numero dei comuni interessati dalla Strategia, giustificato dalla necessità di una equa e uniforme distribuzione delle provvidenze, confligge in modo abbastanza evidente con quella di concentrare le scarse risorse disponibili principalmente verso alcuni territori caratterizzati da un effettivo svantaggio di accessibilità ai servizi essenziali (istruzione, salute e mobilità nella sua primigenia impostazione) oltreché da fenomeni di spopolamento, conseguenti le dinamiche di declino socio-economico ma che, d’altra parte, dispongono di risorse ambientali, culturali e sociali non adeguatamente valorizzate.
Questa potenziale contraddizione, non è l’unica né tantomeno nuova nell’ambito delle politiche di coesione: nella stessa perimetrazione dei Comuni interessati da Agenda Urbana, sin dai tempi del settennato 2014-2020, aveva infatti prevalso nel Paese la logica della dispersione delle risorse, in luogo della loro concentrazione, ad esempio a favore dei soli capoluoghi di provincia, delle città metropolitane o addirittura di una sola città. La maggior parte delle Regioni, a loro volta, avevano privilegiato un approccio diffusivo: ovvero più città coinvolte, ma risorse diluite con il rischio di progetti meno incisivi. A ben vedere, come è stato ricordato nel corso dell’incontro, un approccio anch’esso a carattere distributivo, ispirò a suo tempo l’istituzione delle Comunità Montane, nate dalla legge 1102/71, che determinò la classificazione montana di tutto il territorio regionale; con la inevitabile conseguenza che se tutti i Comuni erano montani, nessuno lo fu al punto di poter pienamente giovarsi delle misure a quel tempo finalizzate a promuovere uno sviluppo integrato, economico, sociale ed ambientale delle aree più svantaggiate proprio delle finalità istitutive della legge. Una contraddizione, quella tra la necessità di concentrare in pochi poli le risorse in ossequio al “principio di massa critica” e quello della logica distributiva della “diffusione perequativa” che ha cercato sempre di accontentare un po’ tutti, tuttora riscontrabile in alcune delle misure che accompagnano le politiche di coesione.
Ma c’è un ultimo aspetto, riferibile alle predette politiche di coesione, non esente da qualche altra critica. Nell’impostazione iniziale data da Barca, quando era Ministro per la Coesione Territoriale, era stata sottolineata con forza la necessità del superamento della mera “capacità di spesa” come criterio di successo delle politiche; cioè che le politiche di coesione europee fossero finalmente valutate non solo sulla base di quest’ultimo criterio, ma sugli effetti concreti in termini di sviluppo territoriale e riduzione delle disparità: operando il passaggio dal criterio degli indicatori di spesa (cioè quanti soldi sono stati erogati) a quello degli indicatori di risultato (quali effetti quei soldi hanno effettivamente prodotto); cioè sui risultati conseguiti in termini di occupazione giovanile, di qualità ambientale, di miglioramento dei servizi scolastici, sanitari, della mobilità, ecc.
Come si è visto anche in occasione del PNRR – dove peraltro anche la semplice velocità della spesa rappresentava comunque un fattore importante per rimettere in moto il paese dopo la pandemia – l’esplicitazione e la misura dei risultati attesi è sembrata costituire una pratica del tutto marginale o addirittura assente nella pur doverosa valutazione di impatto conseguente l’impiego della grande massa di risorse resesi disponibile.
Concludendo, appare evidente che, fino a quando non sarà data importanza ed un adeguato impulso alla valutazione del “se, a favore di quali soggetti e in quale misura”, le provvidenze utilizzate abbiano effettivamente prodotto i risultati attesi per la qualità di vita delle persone, ovvero abbiano generato nuove opportunità per le imprese, ridotto le disuguaglianze sociali, migliorato la qualità ambientale, invertito la tendenza alla marginalizzazione e allo spopolamento dei territori, ecc., il rischio di impiegare in modo inefficace le sempre più scarse risorse disponibili nei Programmi Operativi del nuovo settennato del Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 sarà purtroppo incombente.
Se e quando tale valutazione dovesse essere effettuata, potremo finalmente apprezzare gli esiti di questo nuovo ciclo di programmazione e le sue effettive risultanze.
*Diego Zurli Architetto
Comitato Scientifico Nuove Rigenerazioni