di Gabriella Mecucci
Gentile, minuta, sorridente: Daniela Monni è in realtà una donna forte, una sorta di iron lady. Ha cinquant’anni – ne dimostra meno di quaranta – e ha fatto un sacco di cose importanti: si è laureata alla Luiss con una tesi sull’ipertesto, è dirigente di un’azienda meccanica che ha rapporti con mezzo mondo, è stata direttrice della Caritas regionale, e ora gestisce i fondi per il sociale della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. L’impresa al femminile made in Umbria ha in lei una delle punte di diamante.
Dottoressa Monni, come è riuscita una famiglia di artigiani di Ponte Pattoli a costruire un’azienda che produce per il mondo?
La nostra è un’impresa famigliare fondata dal nonno nel 1934. All’inizio si occupava della riparazione delle macchine agricole. Poi mio padre e lo zio insieme alle loro mogli hanno spostato l’asse verso le macchine industriali. La seconda svolta è avvenuta nel 2010, anno della grande crisi, quando siamo entrati nel mondo del Pipelayer legato alla realizzazione di gasdotti e oleodotti, di cui oggi tanto si parla: alcune delle nostre macchine stanno ora lavorando in Canada e, negli anni scorsi, in Germania, in Algeria e in altre importanti realtà. Abbiamo avuto anche rapporti indiretti con la Russia.
In cosa siete specializzati?
Facciamo la revisione, ripariamo i giganteschi macchinari per gasdotti e oleodotti. Ne controlliamo lo stato e il funzionamento. Siamo strettamente connessi con alcune grandi aziende nazionali del settore come la Bonatti di Parma e con altre israeliane che lavorano per tutto il mondo. La Monni srl è una piccola impresa (16 dipendenti) di famiglia: artigianale, ma anche internazionale e con alti contenuti tecnologici. Mio padre poi ha sempre applicato al nostro interno criteri solidaristici”.
Che vuol dire?
Le faccio un esempio. Nel 2010, nell’occhio sella crisi, abbiamo fatto tutti la cassa integrazione, anche io. E ci siamo attivati per trovare nuovi settori d’intervento, allo scopo di garantire l’occupazione a tutti i dipendenti. E questa ricerca ci ha permesso di individuare un nuovo campo di attività che ci ha consentito addirittura di fare nuove assunzioni. Abbiamo iniziato a rigenerare motori che vendiamo ovunque: dall’Europa alla Polinesia. Il motore è una sorta di cuore della macchina, serve a far funzionare pale ed escavatori. Di questi cuori ce ne sono pochi in giro e noi ne abbiamo 150 che sono stati già revisionati. Sono a posto e li vendiamo attraverso internet.
E durante la pandemia come è andata?
Bene, molto bene. Causa Covid c’è stata e c’è una grande crisi di materie prime e i ricambi si trovano con grande di difficoltà. Noi, che nel recente passato avevamo stoccato i motori, ora li possiamo mettere sul mercato. Abbiamo fatto stock di magazzino perchè mio padre voleva che i nostri dipendenti continuassero a lavorare. La sua generosità è diventata redditizia: la Monni, mentre purtroppo molte aziende hanno avuto serie difficoltà, grazie a questa scelta, possiede una merce rara. Ed è quindi cresciuta durante la pandemia al ritmo del 15 per cento.
Ogni volta che vendiamo un motore riattivato, chiediamo che ci venga inviato quello vecchio. Lo rimettiamo a posto e lo rivendiamo, diventando così anche attori, nel nostro piccolo, dell’economia circolare. Siamo infine un’azienda 4.0 dal punto di vista della commercializzazione”.
Vendiamo attraverso Google. Mi sono laureata alla Luiss con una tesi sull’ipertesto e ho una buona padronanza della comunicazione di massa. Questa esperienza mi ha consentito di rendere la nostra piccola azienda immediatamente rintracciabile in rete. Ci arrivano ordini da tutto il mondo e noi in 24 ore siamo in grado di rispondere alle richieste. Così anche la mia tesi è diventata economicamente produttiva. E poi adesso c’è mio figlio che mi aiuta a utilizzare le nuove tecnologie. Ha 18 anni ed è molto appassionato di matematica. Si iscriverà ad ingegneria informatica.
Sin qui l’imprenditrice, passiamo ora all’impegno nel sociale. Cominciamo dalla Caritas…
Sono stata in Caritas ben 14 anni e per sette ne ho fatto la direttrice regionale. Ho iniziato quando era vescovo Chiaretti e poi ho collaborato a lungo col cardinale Bassetti. Sono rimasta lì sino al 2016. La considero un’esperienza straordinaria che ha contribuito moltissimo alla mia crescita.
Quali sono le realizzazioni che ricorda con maggiore soddisfazione?
Ho iniziato a fare la direttrice quando avevo i figli piccoli e l’azienda stava vivendo una crisi seria. Quello che sono riuscita a fare lo devo alla provvidenza e all’aiuto di straordinari collaboratori. Due sono le cose fatte che mi sembrano molto positive. La prima è stata essere riuscita a salvare le opere create da Don Lucio, che assistevano persone in grave difficoltà e al cui interno lavoravano, completamente gratis, un gruppo di straordinari volontari. Riuscire a far sopravvivere quell’esperienza è stata un’impresa difficile, ma per me indimenticabile. Qualcuno voleva annientarla. Don Lucio ha commesso degli errori, ma questo non significa che tutta la sua vita sia un errore. Ha fatto anche molte cose buone e sono felice di aver collaborato alla salvezza delle sue opere. In quel periodo difficile ho lavorato a stretto contatto con Bassetti, ne ho apprezzato la sua attitudine di pastore, me lo sono sentita vicino come un padre.
E qual è la seconda realizzazione fatta in Caritas che ritiene importante?
La costruzione degli empori della solidarietà. Notai che tutti gli aiuti comunitari che arrivavano dall’Agea venivano sistemati sotto dei tendoni che si riempivano disordinatamente di cibo, distribuito poi a cielo aperto. I frati Cappuccini ci misero a disposizione un magazzino e io pensai di mandare alcuni collaboratori a vedere come funzionavano gli empori della solidarietà che erano già nati nel Nord Italia. Proprio in quei giorni mi telefonò il cardinale Bassetti e mi parlò della disponibilità della Fondazione Cassa di Risparmio a finanziare gli interventi della Caritas, se avessimo presentato un progetto. Detto fatto: così partì l’esperienza degli empori della solidarietà. Adesso ce ne sono tre e non contengono solo gli aiuti Agea, ma anche molti altri cibi. E chi ne ha bisogno trova dei locali dove andare a prendere un buon pasto con una card.
Questa esperienza la mise in contatto con la Fondazione Cassa di Risparmio che ha poi rappresentato una nuova fase del suo impegno nel sociale..
Lasciata la Caritas nel 2016, sono entrata in Fondazione. E ora presiedo la Commissione welfare. Il mio chiodo fisso è stato ed è quello di far crescere il Terzo settore umbro che ne ha un grande bisogno.
La Fondazione ha stanziato di recente per il sociale 3 milioni e mezzo, qual è l’asse centrale del suo intervento?
Le direttrice più importanti sono la capacità di aprirsi ad altre realtà nazionali e la formazione. Anche il terzo settore deve incamerare tecnologia, deve diventare 4.0. Abbiamo organizzato, fra gli altri, corsi sulla progettazione sociale – se non si sa progettare non si prendono nemmeno i fondi del Pnrr – e corsi sull’applicazione della riforma del terzo settore. Dobbiamo favorire l’area dell’impresa sociale in modo che i territori siano in grado di produrre beni relazionali. E cioè deve allargarsi, ad esempio, un’area di iniziativa per l’assistenza agli anziani e ai disabili. Di tali servizi c’è una domanda crescente, occorre che nascano imprese che operino in questo campo e in grado di autosostenersi economicamente. Aiutare questo processo sarà l’asse centrale del nostro impegno
Per concludere questa conversazione, un’ultima domanda: in quanto donna ha trovato difficoltà nei suoi numerosi impegni?
In parte sì. In azienda, quando rispondevo al telefono, più di un cliente mi chiedeva: c’è un uomo con cui parlare? In Caritas c’erano solo due donne nel ruolo di direttrici: io e una suora. In Fondazione adesso la Presidente è una donna. Non posso negare di aver incontrato difficoltà, ma sono riuscita a superarle grazie all’impegno e al lavoro.