di Giulio Massa
È ora di finirla. È ora di finirla con le battutine sussiegose e sarcastiche all’indirizzo dei pacifisti nostrani. E ’tempo di smetterla di liquidarli come pacifinti, perché quella a cui anelano pare più una resa (degli ucraini) che una pace, di bollarli come utili idioti putiniani perché apparentemente pronti a cedere allo Zar la qualunque (purché rigorosamente messa in conto agli ucraini di cui sopra) pur di salvaguardare il loro/nostro fottuto quieto vivere e tornare con la Russia (non potendo proprio tornare al Muro che fu) almeno al florido “business as usual” di qualche anno fa.
Più di tutto, è ora, per noi bellicisti occidentali, di rinfoderare, e con tante scuse, l’accusa apparentemente più implacabile finora rivolta ai pacifisti: l’accusa, cioè, di giocare a fare le anime belle, di sciacquarsi la bocca con le ispirate parole sulla pace, quasi che la politica internazionale fosse un Angelus domenicale, senza mai declinare in uno straccio di proposta concreta i loro nobili “diamo un’occasione alla pace”.
Non è vero nulla e tutto ciò è profondamente ingiusto.
Ieri, infatti, il fortissimo punto di riferimento di tutti i pacifisti, il sensale del rossobrunismo italico, insomma lui, Giuseppe Conte, ha fatto giustizia di tutte queste risibili accuse svelando, infine, il suo concretissimo piano di pace. Macché piano: se il termine non urtasse la delicatissima sensibilità degli arcobaleno vestiti, la parola giusta sarebbe “arma”. Mentre Putin sfoggia ogni giorno, ad uso della Russia profonda e della credulità popolare occidentale, terribili armi di fine mondo, l’avvocato del popolo, il dottor Stranamore del bonus 110%, annuncia, sotto lo sguardo rapito di Luca Telese, l’arma di fine guerra: il telefono.
“Sapete cosa vi dico? Se io fossi stato al governo l’avrei massacrato di telefonate Putin, ogni giorno, per costringerlo a sedersi ad un tavolo, ad accettare delle condizioni…”. Insomma, Macron, con la sua insignificante sequela di chiamate a Putin prima dell’invasione dell’Ucraina (telefonate, chissà poi perché, tutte rigorosamente di novanta minuti) sembra uno, come dicono a Roma, che a Conte je spiccia casa, che non può reggere il confronto.
Ovviamente, il punto oggetto di febbrile valutazione in queste ore, presso tutte le cancellerie internazionali, è l’efficacia dell’arma sfoderata dal mago di OZ (copyright Beppe Grillo).
Ora, sull’idoneità delle minacciate telefonate di Conte a “massacrare” Putin crediamo sia inutile fare dell’ironia fuori posto: ebbene sì, la vacua e prolissa retorica da leguleio di remota provincia, che contraddistingue il professor Conte, è semplicemente perfetta per devastare lo Zar, con particolare riferimento… ai gioielli della corona.
Il dubbio sorge invece rispetto alla possibilità che i virtuosismi dialettici del nostro ex “premier per caso” possano indurre Putin a sedersi al tavolo delle trattative e ad accettare addirittura delle condizioni. Riepiloghiamo: Putin dovrebbe essere convinto a trattare, a suon di telefonate, da un tizio che verosimilmente gli ripeterebbe alla nausea che non un solo fucile andrebbe agli ucraini aggrediti, che quelli improvvidamente già loro consegnati gli ucraini medesimi li potrebbero usare solo per spararsi allegramente nei piedi, che ogni forma di deterrenza, se praticata dall’Occidente, si chiama “irresponsabile escalation” e che qui da noi si prende, al contrario, in modo terribilmente serio ogni red line fissata dal Cremlino, sebbene palesemente tracciata sulla sabbia? È curiosa quest’attitudine dei filoputiniani a considerare intrinsecamente stupido il loro eroe.
Sono passati esattamente trent’anni da quando, grazie allo spot di Sip con un giovane Massimo Lopez, è entrata nel linguaggio degli italiani l’espressione “una telefonata allunga la vita”.
Solo i più giovani non ricordano la scena del condannato a morte che, sotto un sole infuocato, chiede al plotone di esecuzione, come ultimo desiderio, di poter fare una telefonata che si trasforma in una lunga e distesa conversazione, capace di volgere la scena dell’esecuzione in un contesto allegro e comico. Era l’Italia che si apprestava a passare da Sip a Telecom, ma era anche l’Italia di sempre, eternamente confidente di poter rovesciare qualunque contesto tragico grazie all’ improbabile stellone di turno.
Trent’anni dopo un gran pezzo di classe dirigente italiana, ben incarnato da Conte, è ancora lì, a recitare la parte del condannato Lopez. Solo che questo non è uno spot. È una tragedia in cui agiamo come in una farsa. Per la gioia del pubblico pacifinto non pagante. Intanto pagano gli ucraini.
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