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Nel 2026 sarà il centenario della nascita di Dario Fo che ebbe un lungo ed importante rapporto con l’Umbria. E la Fondazione Fo-Rame ha già annunciato “100 anni per 100 paesi”, una serie di iniziative che si svolgeranno in tutto il mondo  e che partiranno ad ottobre 2025 in Umbria: coinvolgeranno Perugia, Gubbio e Spoleto. Per ricostruire il legame della regione con  Dario Fo, abbiamo deciso di parlarne con Franco Ruggieri. E’ stata un’ interessante conversazione che è andata ben oltre la pur importante presenza del premio Nobel. Passaggi ha deciso di ricavarne una prima puntata tutta dedicata a Fo, e di farla seguire da una seconda sulla storia del teatro in Umbria che portò alla nascita dello Stabile e alla sua importante attività quasi quarantennale.

di Gabriella Mecucci
Foto ©Gorupdebesanez – Wikicommons

C’è qualcuno che ha parlato dell’Umbria come del “buen retiro” di Dario Fo, ma la definizione è riduttiva. Non c’è stata solo la tenuta di Santa Cristina, una bella casa nel verde dove passare il tempo libero e ricevere amici e conoscenti, né solo un centro culturale come Alcatraz, per lui la regione ha rappresentato qualcosa di più. E’ stato un luogo dove ha coltivato rapporti intellettuali importanti, dove ha espresso la sua creatività, dove ha pensato, allestito e ha debuttato un suo spettacolo di grande successo, prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria. E non è quindi un caso che la Fondazione Fo-Rame voglia far partire da qui le celebrazioni per il centenario della nascita (1926) dell’ultimo Nobel italiano per la letteratura.  

E’ un perugino doc uno dei protagonisti della storia recente del teatro italiano che l’ha frequentato lungamente avendo con lui un’intensa collaborazione culturale. Si tratta di Franco Ruggieri che ha cominciato da ragazzo a calcare letteralmente le scene – in pochi ricordano che fece anche l’attore e persino il mimo – e che ha una carriera prestigiosa alle spalle: è stato fra l’altro direttore della Prosa al Festival dei Due Mondi, ha fondato e diretto lo Stabile dell’Umbria, è stato Presidente dei Teatri Stabili, ha prodotto gli spettacoli di alcuni dei più grandi nomi della drammaturgia e della regia. E’ l’uomo giusto quindi per raccontare Dario Fo e il suo rapporto con l’Umbria

Quando lo ha conosciuto?

“Per parlare della nascita del mio rapporto con lui ho bisogno di fare una breve premessa. A Perugia in principio c’era la Fonte Maggiore dove si muoveva il gruppo teatrale che io cominciai a frequentare da ragazzo. Al suo interno spiccavano due importanti personalità: Giampiero Frondini e Sergio Ragni. Dalla Fonte Maggiore nacque il Cut (Centro universitario Teatrale) e le due associazioni ebbero una vita parallela. Un po’ nello stesso periodo spuntarono centri universitari teatrali in diverse parti d’Italia.” 

Dario Fo in quegli anni era già un grande uomo di teatro, i suoi spettacoli erano seguitissimi..

“E’ stato un superbo attore, un grandissimo scrittore di teatro, uno scenografo e un coreografo.  Nel suo percorso si distinguono nettamente due fasi: la prima in cui si muoveva all’interno dei circuiti tradizionali facendo prevalentemente – mi si passi la definizione inappropriata – un teatro borghese con spettacoli comici di straordinario successo, e la seconda in cui ruppe, dopo una dura polemica col ministero del Turismo e dello Spettacolo, con il circuito tradizionale e ne creò uno suo, in collaborazione con l’Arci, e del tutto alternativo. Sia chiaro che anche nella prima fase gli spettacoli di Fo erano impegnati e corrosivi.  La sua comicità metteva in evidenza, ingiustizie, difetti, limiti, tic della società capitalistica. Nella seconda fase le sue tournèe accentuarono la politicizzazione: gli spettacoli erano marcatamente di sinistra e, progressivamente, sempre più critici anche verso il Pci”.

Perché arrivò allo scontro col ministero?

“Come dicevo il teatro di Fo aveva un grande seguito di pubblico, ma il Ministero gli dava pochi finanziamenti – meno di quanti ne avrebbe meritati per il successo che otteneva. Una discriminazione dovuta alle posizioni politiche che caratterizzavano i suoi lavori teatrali. Per questo Fo arrivò allo scontro. Dopo la rottura fece un gesto molto forte e provocatorio: versò ai Cut i soldi pubblici che aveva ricevuto. Comunicò questa decisione nel corso di un convegno a Prato e fu allora che lo vidi per la prima volta. Il Cut di Perugia potè gestire, con l’ accordo degli altri, ben 5 milioni, una bella cifra per quei tempi. Godevamo di buona fama anche perché eravamo una sorta di punto di mediazione con la componente dei centri universitari più ideologica. La radicalità di questi giunse al punto di contestare un capolavoro come il Galileo di Brecht, con la regia di Giorgio Strelher, fondamentalmente perché era uno spettacolo troppo costoso, da ricchi. I due Cut che avevano la leadership nazionale erano quello di Perugia e quello di Parma dove si teneva annualmente un festival del teatro universitario”.

Torniamo al racconto del suo incontro con Dario Fo…

“A Prato ci scambiai solo qualche battuta, Sergio Ragni invece intrattenne con lui un rapporto più stretto. Grazie a quei 5 milioni potemmo ospitare a Perugia il Living Theatre che era allora, insieme a Peter Brook e a Grotowski, uno dei teatri d’ avanguardia più importanti del mondo. Rappresentava la componente forte della beat generation. Erano hippie: avevano una cultura molto critica di tutti gli aspetti del capitalismo e erano duramente alternativi al sistema. Anticipavano in teatro quelli che sarebbero diventati i temi centrali del movimento studentesco che dilagherà nelle grandi università americane e  europee, e che culminerà nel maggio francese. Il Living si fermò in città per ben 15 giorni. Fece due spettacoli di grandissimo successo: Morlacchi gremito e file al botteghino. Organizzammo poi anche seminari e workshop a cui la compagnia prese parte attivamente. Perugia era diventata in quelle due settimane una capitale della cultura teatrale. Il Living dialogava con noi del Cut con simpatia e disponibilità. E la medesima disponibilità la mostrò quando tutti loro accettarono di buon grado di essere ospitati in piccole pensioni, anziché nei grandi alberghi. I cinque milioni, che ci erano sembrati tanti, volavano infatti via rapidamente. Quei quindici giorni furono un momento indimenticabile e noi del Cut venimmo affascinati anche dagli aspetti umani del Living. Per me fu un’emozione unica.  E tutto questo avvenne grazie a Dario Fo”.

Ma non finì lì. Come si cementò la vostra collaborazione e la vostra amicizia?

“Il rapporto di Dario Fo con l’Arci ad un certo punto si ruppe perché quest’ultima era legata al Pci, e lui ormai criticava pesantemente quel partito collocandosi all’estrema sinistra. Finita questa collaborazione creò la Comune che organizzava i suoi spettacoli in giro per l’Italia fuori da ogni circuito. Tantochè Mistero Buffo, la sua opera che più di ogni altra ha contribuito all’assegnazione del Nobel, quando venne a Perugia non andò in scena al Morlacchi o al Turreno. In quel periodo tutti i suoi spettacoli finivano o al Lux di Fontivegge o al Cinema di Ponte Felcino”. 

Un capolavoro come Mistero Buffo in un teatro di periferia?

“ Andò proprio così. Eppure Mistero Buffo è stato uno dei più grandi eventi teatrali del dopoguerra, uno spettacolo che ebbe una risonanza mondiale. Dario Fo, l’attore- autore, solo in scena, rielaborava spunti di sacre rappresentazioni irreligiose o blasfeme dando vita ad uno stuolo di personaggi a volte in conflitto: un formidabile balletto con testi dati per medievali e spesso completamenti riscritti se non del tutto inventati. Il linguaggio era frutto di un geniale impasto pavano-lombardesco. Avrò visto questo capolavoro una ventina di volte e ogni volta era diverso. E lui sempre di una bravura mostruosa”.                                            

Quando Dario Fo tornò a calcare il palcoscenico dei due grandi teatri di Perugia?

Quando diventai direttore dell’Audac (Associazione umbra decentramento artistico e culturale), avevo già incominciato da tempo ad intrattenere con lui un rapporto più ravvicinato. Naturalmente lo riportai al Morlacchi. Intanto, a Milano, la Comune fece della Palazzina Liberty la sua sede, dove sono andato molte volte così come a casa Fo. La sua fama di drammaturgo cresceva a dismisura in tutto il mondo e un po’ ovunque venivano acquistati i diritti d’autore dei suoi spettacoli. Tutto questo accadeva non senza ostacoli. Anzi, si può ben dire che nei suoi confronti ci fu un vero e proprio boicottaggio”.

M può spiegare meglio?

“La polizia e i carabinieri lo controllavano, facendo reiterate visite a la Comune. La compagnia fu privata più volte della possibilità di recitare nelle maggiori città italiane. Venne sottoposta continuamente ad arbitri autoritari sino ad arrivare alla violenza fisica e all’arresto. Non è eccessivo parlare di una persecuzione. In questo clima si verificò l’aggressione e lo stupro di Franca Rame. Un gruppo di fascisti la sequestrò e, chiusa dentro un furgone, venne violentata dal branco. Uscì da quell’ esperienza non solo devastata psicologicamente ma anche menomata nel corpo: perse infatti parzialmente l’uso di un braccio. Continuò però a lavorare intensamente alla Palazzina Liberty, ogni volta che andavo la trovavo sempre indaffaratissima. Non si può dimenticare che subì una violenza terribile. Tutto questo dice anche che cosa fosse l’Italia di allora. Poi, progressivamente le acque si calmarono”.

In mezzo a questa situazione di boicottaggio e di violenza, qual era il rapporto fra Franca e Dario? Naturalmente c’era il lavoro, i tanti e importanti spettacoli fatti insieme. Lei Ruggieri era sufficientemente amico da conoscere anche i risvolti più privati della loro relazione.  Se non sbaglio una volta Franca Rame annunciò in televisione la sua volontà di divorziare.. 

“Il loro rapporto era fortissimo, splendido, ma è vero che ci fu un momento difficile. Dario mi parlò di questo grave problema con Franca, anche perché, subito dopo le dichiarazioni della moglie ad una seguitissima trasmissione televisiva, venne a Perugia per uno spettacolo. E la storia era sulla bocca di tutti. Per fortuna la crisi rientrò. Il mio legame con lui nasceva dal lavoro ma andava ben oltre. Ci vedevamo di frequente a Milano, allora ero Presidente dei Teatri Stabili e quindi andavo spesso in quella città: la prima tappa era al Piccolo con Giorgio Strelher, poi una visita alla Palazzina Liberty e subito dopo passavo a salutare Anna Maria Guarnieri che abitava nei pressi. I miei incontri con Dario aumentarono ulteriormente quando comprò Santa Cristina e creò Alcatraz”.

Avete avuto altri progetti per l’Umbria?

“A Santa Cristina facevamo lunghe passeggiate, discutendo della possibilità di dar vita a un teatro all’aperto. Camminavamo e cercavamo all’interno della tenuta il posto giusto dove realizzarlo. Ci capitò anche di passare insieme più di una fine d’anno al punto di ristoro di Santa Cristina. Una volta gli dissi che il giorno dopo non ci saremmo potuti vedere perché era ferragosto, giorno del compleanno di mia moglie, e lui si offrì di venire da noi a Perugia. Arrivò munito di una cartella piena di fogli e di matite. Alla cena partecipavano alcuni intellettuali perugini, in particolare psichiatri che erano stati protagonisti della chiusura del manicomio, e Dario si mostrò molto interessato a quell’esperienza. Durante tutta la serata, mentre conversava con loro, continuò a disegnare. Prima di andarsene, lasciò quei disegni, decisamente belli, ad Assunta come regalo di compleanno”.

E dello spettacolo di Fo prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria cosa ricorda?

“La volontà di farlo non nasceva dal nulla ma dalle nostre tante discussioni del passato, da quando ero alla guida dell’Audac. Era dunque un vecchio progetto che riuscimmo a realizzare quando diventai direttore del Teatro Stabile e, causa incompatibilità, lasciai la direzione della Prosa al Festival di Spoleto, pur conservando con questo un importante rapporto. Chiesi a Dario quale autore avrebbe preferito rappresentare e lui scelse Ruzzante che piaceva molto anche a me. Lo Stabile produsse lo spettacolo e io ne parlai con Menotti per farlo debuttare a Spoleto. All’inizio non mi sembrò entusiasta, ma non disse di no”. 

Come andò la prima? E Menotti che giudizio diede?

Dario Fo incontra Ruzzante debuttò al Teatro Nuovo e ebbe un successo straordinario di critica e di pubblico. Menotti commentò: Questo è un uomo di grande talento. Anche lui dunque fu molto soddisfatto. La pièce era stato realizzata a misura di Dario Fo e a costi ridotti, soprattutto perché sia lui che Franca Rame presero un compenso simbolico. Per questo, con l’accordo del consiglio di amministrazione dello Stabile, decisi di cederlo in proprietà a la Comune. Il nostro neonato Teatro Stabile aveva già guadagnato molto in prestigio e in promozione”.

Ha già parlato di Santa Cristina, perché Dario Fo decise di acquistarla e di farne un centro tanto importante?

“Francamente non me lo ricordo. Così come non mi ricordo perché Luca Ronconi, uno nato a Tunisi, vissuto a Roma e che faceva regie in tutta Europa, sia andato, ancora relativamente giovane, a vivere per decenni in una bellissima casa di quella zona, proprio nei pressi della tenuta di Dario Fo. I due non erano amici, si conoscevano ovviamente, ma non si frequentavano: i loro rapporti erano ridotti al minimo. Facevano due tipi di teatro che erano all’opposto. Non tanto ideologicamente, anche Ronconi era di sinistra, ma i suoi spettacoli erano mastodontici, spesso costosi, mentre Fo calcava la scena da solo o insieme Franca Rame”. 

Fu una strana coincidenza che Fo e Ronconi scegliessero Santa Cristina non crede?

Sì è davvero curioso che due fra i più grandi uomini di teatro del mondo finissero quasi contemporaneamente in un posto semi sconosciuto, lontano da tutti i riflettori. Entrambi amavano quel luogo e ebbero un bel rapporto con l’intera regione: uno ci viveva, l’altro ci creò un centro di cultura come Alcatraz. E Dario – come ho già accennato – era molto interessato anche all’esperienza psichiatrica umbra”.

E negli anni più recenti, quali furono i vostri rapporti?

“Il mio ultimo ricordo di loro è legato ad un momento immediatamente successivo al Nobel. Avevano deciso di dare l’intera somma del premio, che non è certo irrilevante, in beneficenza. Li trovai molto indaffarati. Franca era sommersa dalle pratiche di quanti chiedevano di beneficiare di quella donazione che fu totale – per loro non trattennero nulla. Fecero una sorta di bando per scegliere a chi dare i soldi. Arrivarono una valanga di richieste e, soprattutto lei, le esaminava con grande attenzione per capire chi era più meritevole e chi ne aveva più bisogno. Quella generosa confusione è l’ultima, coinvolgente immagine che conservo di Dario e Franca”.