di Gabriella Mecucci
Le tante anime che l’hanno percorsa e gli interrogativi sulla sua efficacia. La grande tradizione di una manifestazione che ha generato tante speranze quante polemiche.
A qualche giorno dalla Marcia Perugia – Assisi, scadenza sempre di grande rilevanza, è il momento di sollevare almeno due interrogativi per comprendere la natura di questo movimento.
Il primo: che cosa è il pacifismo? Per la precisione, occorre parlare di pacifismi. E’ giusto usare il plurale perché ce ne sono tanti e fra loro persino contraddittori.
Altro discorso vale per la nonviolenza capitaniana che si può ritenere giusta o sbagliata, efficace o inefficace, ma che certamente è caratterizzata da una straordinaria coerenza. E la coerenza etica non manca certo – anche se per ragioni profondamente diverse – al messaggio francescano che trova il suo fondamento nella fede in Dio e nell’essere “fratelli tutti”. Questi sono i due filoni culturali più importanti che costituiscono le radici della marcia Perugia-Assisi.
In marcia per reinventare il pacifismo nel terribile “mondo nuovo”
La manifestazione è stata percorsa nei suoi oltre sessant’anni di vita anche da molto altro: dai “partigiani della pace” di ispirazione filosovietica alle componenti rumorosamente schierate con questa o quella guerriglia, dal terzomondismo sino al berlinguerismo e all’importante impegno dei cattolici. E ciò è stato possibile perché il pacifismo contiene una profonda ambiguità: tutti coloro che lo proclamano dicono di volere la pace, ma per ottenerla propongono di seguire vie spesso molto distanti, o addirittura opposte.
Sulle diversità di progetto, basti ricordare che nella Perugia-Assisi del 12 ottobre marceranno insieme coloro che vogliono la cancellazione di Israele e che plaudono alle posizioni fanatiche di Francesca Albanese, e quanti credono che Israele debba esistere e difendersi, senza però rendersi protagonista di un massacro come quello di Gaza. Ci saranno quelli che propongono “due popoli e due stati” e quelli che ne vogliono solo uno, quello palestinese, come sostiene una parte importante dei proPal. Ci sono i fautori di una politica di totale disarmo e chi vede di buon occhio la nascita di un esercito europeo. E queste come altre posizioni– o addirittura opposizioni – appariranno tutte nel lungo corteo di domenica.
Sarà una marcia molto partecipata, ma percorsa da parecchie contraddizioni. Non è la prima volta che questo si verificherà. Aldo CapitIni – tanto per ricordarne una – faticò non poco in quella del 1961 a tenere sotto controllo tutte le sue componenti. Tantochè volle, prima della partenza, visionare i cartelli e gli striscioni. E ci riuscì, ma non è andata sempre così. Valga per tutti l’esempio dell’imbarazzante lettera di adesione, non richiesta, inviata da Breznev alla marcia del 1981, e che dire della presenza di slogan faziosi e di violenze verbali che Capitini non avrebbe certo tollerato?
Occorre riconoscere però che la Perugia-Assisi non ha fatto mai registrare episodi di violenza fisica. Domenica si riuscirà a evitare che spuntino striscioni orribili, inneggianti al 7 ottobre, come è successo a Roma? Che questa non sia la volontà dei promotori non c’è dubbio, ma il timore di provocazioni e di infiltrazioni è legittimo. Sia chiaro, quando scendono in campo decine di migliaia di persone, riuscire a controllare tutto è impresa difficilissima, eppure indispensabile.
La seconda grande domanda sul pacifismo è la seguente: un movimento che in alcuni momenti ha mobilitato e tuttora mobilita grandi masse, riesce anche ad essere efficace? Ha raggiunto o ha contribuito a raggiungere gli obiettivi che si proponeva?
Certamente è stato decisivo in India. La nonviolenza gandhiana, elemento centrale del pensiero di Capitini, ha reso possibile la conquista dell’indipendenza dal Regno Unito. E’ questa però la sua unica vera vittoria. Ci sono stati altri momenti in cui il pacifismo ha contribuito parzialmente all’esito finale positivo. Ha, per esempio, portato a trattati per il controllo degli arsenali nucleari anche se non è mai riuscito a fermarne la proliferazione – obiettivo questo del movimento pacifista di Bertrand Russell che fu un asse portante della prima marcia Perugia-Assisi e che aderì anche a quelle degli anni Ottanta.
In molte altre realtà: dall’Algeria al Sud Africa al Vietnam l’uso della forza è stato, anche se in diversa misura, sempre presente. Per non parlare degli eserciti alleati e della resistenza armata – a cui Capitini era contrario – che furono artefici, fra il 1944 e il ’45, della liberazione dell’Italia, della Francia, e di altri paesi. Per quanto riguarda invece le dittature del socialismo reale, il sistema implose per le sue contraddizioni interne. Il pacifismo, in quei casi, si trasformò in dissenso e venne ferocemente perseguitato. Ebbe un suo ruolo non tanto all’interno di quei paesi, ma all’estero, fra le opinioni pubbliche occidentali dove contribuì al logoramento dell’immagine dell’Urss e dei suoi satelliti.
Il più clamoroso fallimento del pacifismo non fu quello dei movimenti, ma dei governi. Quando cioè a Monaco, in nome dell’appeasement, l’Europa cedette i Sudeti a Hitler. Questo fu il commento di Churchill: “Potevano scegliere fra disonore e guerra, hanno scelto il disonore e avranno anche la guerra”. E così andò.
Questa breve disamina ci dice che le manifestazioni come la Perugia – Assisi possono avere un ruolo là dove c’è la democrazia, ma non si possono nemmeno svolgere sotto le dittature. Per essere più espliciti: in Israele chi invoca la fine della guerra può andare in piazza e può sperare di contare, in Russia no. E se lo fa rischia la fine di Alexey Navalny. Del resto la caduta del comunismo, avvenuta senza spargimento di sangue, è stata seguita però da terribili conflitti: in Georgia così come in Cecenia. E l’ultimo, il più terribile, è quello di Putin contro l’Ucraina.
L’augurio è che la marcia di domenica sia grande e pacifica, intelligente e propositiva, solo così riuscirà a dare una mano a chi lavora per la pace. Uno spazio si è aperto a Gaza con l’intesa sulla prima parte della proposta di Trump, approvata anche dai paesi arabi, e alla quale ha lavorato un europeo della sinistra moderata come Blair. Questa è una notizia positiva, ma è solo l’inizio del cammino per arrivare alla pace.
Si tratta infatti di un cessate il fuoco e di un ritiro dell’esercito israeliano da Gaza, dove era rientrato nell’agosto di quest’anno, nonchè della restituzione degli ostaggi da parte di Hamas e di prigionieri palestinesi da parte di Israele. Obiettivi parziali di questo genere erano stati già raggiunti da Biden, seguiti poi da una ripresa virulenta della guerra nei primi nove mesi della presidenza Trump. Oggi è arrivato finalmente un risultato che genera speranza. Ma la marcia verso una pace duratura sarà lunga e tutt’altro che semplice. Richiederà pazienza e non slogan ad effetto. E di guerre poi ce ne sono ancora tante, a partire dall’Ucraina, in questo terribile “mondo nuovo” in cui stiamo vivendo.