di Sergio Sacchi*
Nel momento in cui questa nota prende forma (giugno 2022) non è ancora chiaro quale sarà l’esito del conflitto tra la Russia e l’Ucraina e, a maggior ragione, nemmeno quali saranno le conseguenze sull’assetto geopolitico dell’Europa e dintorni. Meno incerto è il ragionamento sui canali attraverso cui gli effetti del conflitto tra la Russia e l’Ucraina si propagheranno nel resto del continente europeo e, in particolare, in Italia e soprattutto in Umbria che è, ora, qui e per noi, il contesto di maggiore e più immediato interesse.
Il principale e più immediato canale è, indubbiamente, quello della alterazione dei flussi commerciali tra l’Umbria (e l’Italia) e i tre Paesi belligeranti: Russia, Ucraina e Bielorussia. A parte la quota di fabbisogni di gas e petrolio coperti dal sistema degli scambi internazionali, in seno ai quali l’Umbria non ha alcuna voce in capitolo, gli scambi diretti tra operatori residenti in regione e operatori residenti in uno dei tre Stati appena menzionati non sono, di per sé, particolarmente consistenti: negli ultimi quattro anni le importazioni e le esportazioni hanno rappresentato, per l’Umbria, rispettivamente un po’ meno e qualcosa più del 3%.
Gran parte di quei flussi è comunque sostenuta dall’Ucraina e dalla Russia, essendo praticamente irrilevanti gli scambi diretti con la Bielorussia. Per questi ultimi, infatti, si tratta di ben poca cosa: quasi nulla (nel caso delle importazioni che hanno toccato solo nel 2019 la somma di 30 mila euro) o molto poco (nel caso delle esportazioni ancora attestate, nel 2021, poco sopra i tre milioni di euro ovvero lo 0,06% del totale delle esportazioni umbre).
Agli aspetti caratteristici di tali flussi è già stato fatto riferimento da quanti sono già intervenuti sia su questo sito sia altrove (AUR, Micropolis, …). Ci limitiamo pertanto a ricordare che, scendendo progressivamente nel particolare, si rileva che:
1.gli scambi commerciali riguardano soprattutto i prodotti delle attività di trasformazione manifatturiera i quali, infatti, costituiscono nel caso dell’Ucraina il 95,2% delle importazioni e il 97,6% delle esportazioni e nel caso della Russia rispettivamente il 98,6% e il 94,6%;
2.Il poco che resta per gli altri comparti è assorbito dai prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca: 4,13% (import) e 2,39% (export) negli scambi con l’Ucraina e 0,14% e 5,34% negli scambi con la Russia. Qui la parte del leone la fanno gli scambi di prodotti delle cosiddette colture non permanenti (cereali e legumi, riso, ortaggi, tabacco, ecc.);
3.a loro volta in seno al comparto manifatturiero spiccano i numeri relativi alle esportazioni di abbigliamento (inclusa la maglieria): 45,9% del totale in Ucraina e 59,6% in Russia;
4.altrettanto rilevanti sono le importazioni, ma per la gran parte dall’Ucraina, di prodotti siderurgici e di prodotti di metalli a base di leghe (di zinco, stagno, rame ed altro);
5.sono di una certa rilevanza anche le esportazioni, dirette prevalentemente verso la Russia, di prodotti alimentari, bevande e tabacco (sezione CA) e quelle di apparecchi e macchine operatrici (comparti CI e CK).
Il tutto, come realizzato nel 2021, con saldi finali di poco più di 50 milioni di euro di importazioni e meno di 20 milioni di esportazioni nei confronti dell’Ucraina e di 4 milioni di euro di importazioni e 124 milioni euro di esportazioni nei confronti della Russia.
Il conflitto tra i due Paesi impatterà in modo diverso sugli scambi con l’Umbria e sulla sua economia e la misura dell’impatto dipenderà ovviamente, anche dalla durata dell’invasione russa sul suolo ucraino.
In generale ci possiamo attendere di condividere le spinte deflattive che ne verranno sull’economia nazionale per via della caduta della domanda internazionale e dunque della produzione di beni per l’esportazione oltre che del venir meno (o dell’aumento dei prezzi) di importanti rifornimenti agro alimentari e manifatturieri.
Stante la modesta apertura e il profilo non proprio da Silicon Valley dell’economia umbra si potrebbe anche prevedere che essa subisca un impatto almeno leggermente ridotto rispetto alla media nazionale se si pensa che ricostruzione e riparazioni potrebbero riguardare in prima battuta le strutture produttive e richiedere quei beni capitali che però non sono una specialità di casa nostra. D’altra parte avendo varie attività e numerosi operatori che sono anelli terminali di più complesse filiere dirette da aziende localizzate fuori dai confini regionali è altrettanto prevedibile che siano quelli umbri i rami che i centri direzionali potrebbero potare per primi.
In ogni caso, modelli econometrici elaborati ad hoc porterebbero, come ricordato in diverse sedi, ad attendersi una perdita di PIL intorno allo 0,7%. E comunque essendo l’Umbria, come detto, realtà molto piccola anche una qualsiasi altra spinta anche di dimensioni contenute potrebbe recarle un danno non indifferente.
Ecco allora che a fianco delle stime di tendenza – suscettibili di imprecisione per via di cambiamenti in atto nei parametri di comportamento – può essere interessante verificare se per alcuni dati tra quelli maggiormente osservati si possano assumere indicazioni di significative reazioni attivate. In altre parole avere se non proprio un nome, cognome e indirizzo completi almeno una localizzazione di massima dei processi potrebbe in qualche modo aiutare a definire meglio i problemi e le aree di crisi e facilitare dunque la progettazione di interventi correttivi o compensativi. In fin dei conti è vero che ci sarà una pandemia da caduta della domanda mondiale ma è anche vero che alcuni soggetti saranno un po’ più vulnerabili di altri e che rendersi conto dell’effettiva patologia del paziente in osservazione potrà aiutare ad affinare terapie e vaccini.
Prendiamo, per esempio, il caso dell’abbigliamento che rappresenta la più rilevante voce delle esportazioni dell’Umbria in quell’area geografica, soprattutto in Russia: lì il comparto CB (tessili, confezioni, pelletteria e calzature) assorbe più della metà (58,6%) delle esportazioni manifatturiere regionali. Detto in soldoni: si tratta di 69 milioni di euro di cui 48,7 milioni sono per articoli di abbigliamento e 10,1 per articoli di maglieria. Uno dei principali fornitori è il gruppo Cucinelli accreditato di una quota di export in Russia, dove erano operativi tre negozi con le sue insegne, pari a circa il 5% del fatturato complessivo ovvero tra i 30 e i 35 milioni di euro. Si tratta, come è facilmente calcolabile, di una somma pari a due terzi o poco più dell’export delle due voci poco sopra menzionate. Il resto del comparto CB è distribuito un po’ qua e un po’ là, spartito tra le poche eccellenze di una qualche rinomanza (accessori, coperte) e comunque anch’esso quasi del tutto appannaggio della provincia di Perugia: meno di ottomila euro di altri prodotti tessili (tra cui i tessuti non tessuti) sono il ricavato delle vendite in Russia da parte di imprese localizzate nell’area ternana. In questo caso viene quasi spontaneo suggerire, con appena un pizzico di esagerazione, di intercettare le telefonate di casa Cucinelli. Così si potranno capire meglio le specifiche e la gravità dei problemi, le misure concepibili per intervenire a sostegno anche di altri più piccoli operatori e il verso che prenderanno esportazioni e produzione di abbigliamento con le connesse ripercussioni sull’economia regionale.
Un secondo esempio proviene dall’analisi delle importazioni. In questo caso dei poco più di 57 milioni di euro complessivi quasi 53 arrivano dall’Ucraina e gli altri 4,3 dalla Russia (la Bielorussia avendo fornito all’Umbria sue produzioni per 12 mila euro nel 2020 ma nessuna nel 2021).
Le importazioni dall’Ucraina sono, soprattutto, prodotti delle attività manufatturiere (55,4 milioni di euro) e per il resto dell’agricoltura, silvicoltura e pesca (2,1 milioni di euro). I prodotti delle attività manifatturiere, a loro volta, sono costituiti quasi completamente (92,7 %) da metalli di base e prodotti in metallo (macchine e impianti esclusi) per un importo di 46,6 milioni di euro di cui 42 e passa di prodotti siderurgici e 3,8 milioni di metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi. Un aspetto di rilievo è che il cento per cento delle importazioni metallurgiche di cui si è appena detto sono destinate a utilizzatori in provincia di Terni e anche in questo caso non resta difficile immaginare qualche nome e il relativo indirizzo.
Due flussi importanti di cui uno sul lato esportazioni e l’altro sul lato importazioni possono dunque essere analizzati più da vicino per soppesare nello specifico almeno una parte dell’impatto della rottura degli scambi commerciali con la Russia e della compromissione di quelli con l’Ucraina. Molto distanziate restano alcune voci quali per esempio le esportazioni di strumenti e apparecchi di misurazione e di prova e navigazione nonché di orologi (comparto CI265): in questo caso i quasi 8 milioni di euro sono incassati da imprese localizzate nel perugino anche se in un’area vasta compresa tra Massa Martana e Foligno.
Naturalmente ci sono da considerare le importazioni di risorse energetiche, che però sono distribuite su scala locale da reti molto più ampie. Ad esse vanno poi affiancate le perdite che deriveranno nel complesso a tutti i comparti per effetto delle ricadute sulle restanti economie occidentali e, in particolare, europee. In questo senso si colloca la stima generale di una flessione del PIL umbro pari (almeno) allo 0,7% così come calcolata dal professor Signorelli per l’Aur e ripresa dal collega Venturini in una precedente nota su questo sito. Ad essa si affianca la convinzione che se proprio non volessimo limitarci alla stesura di cahiers des doleances lo spazio per ulteriori affinamenti non mancherebbe affatto.
*già docente di Economia, Università di Perugia