di Giulio Massa
Cortocircuiti e sottosopra. Quando le immagini tragiche delle guerre in corso, con il loro opprimente carico di dolore, planano sul nostro dibattito pubblico e vengono inesorabilmente tarate sul peso bagatellare che quell’arena circense può realisticamente sostenere, è tutto un fiorire, nel confronto tra i due conflitti alle porte di casa, di cortocircuiti e di ribaltamenti della realtà. Concetti e soluzioni che venivano imperiosamente propagandati per il teatro ucraino, così come dogmi consolidati del catechismo progressista, sembrano improvvisamente non valere più, a fronte della presenza in scena di attori disturbanti ed invadenti: Israele, gli ebrei. In compenso, ci sono schemi dai quali invece, passando da Kyiv a Gaza, non ci si separa, ma sfortunatamente sono i più bolsi, strumentali, ideologici.
Il catalogo, per entrambe le tipologie, è ampio e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Colpito da folgorante cortocircuito è, ad esempio, il concetto di “resa”. Li ricordate i novelli Kissinger de’ noantri, gli sdottoreggianti iper realisti narcisisticamente compiaciuti del proprio cinismo, i lacrimevoli bestemmiatori della pace purchessia, della pace senza giustizia? Ordinavano agli ucraini, con sussiegoso paternalismo, di arrendersi, di cedere questo e quel territorio che i nostri oracoli della geopolitica for dummies sapevano indicare con professorale e chirurgica precisione sulle loro cartine. Cedere quelle terre prima che fosse troppo tardi, prima che Putin li sventrasse, prima che i loro bambini, quelli non ancora rapiti, potessero perdere la vita e con essa la possibilità di crescere oppressi e “rieducati”, ma vivi, sotto il giogo del Cremlino, prima, soprattutto, che le mitiche opinioni pubbliche europee fossero colte dall’inesorabile sindrome della “war fatigue” che le colpisce non appena una guerra, rigorosamente altrui, dura più di qualche giorno.
Queste lezioni venivano impartite ad uno stato sovrano invaso, ad una democrazia mutilata della sua integrità territoriale ad opera di un regime imperialista che, dopo devastazioni, massacri, stupri e violenze di ogni genere, aveva unilateralmente dichiarato annesso il 20% del territorio ucraino. “Meglio la resa della difesa” recitava un osceno cartello issato da marciatori della pace tra Perugia ed Assisi. La mistica della resa, tuttavia, non ha retto al clima mediorientale.
Quando si è trattato, infatti, di intimare l’imperativo morale della resa non già ad un paese democratico aggredito, bensì ad un gruppo di tagliagole che erano entrati in territorio israeliano per sgozzare, con dichiarate finalità di pulizia etnica, giovani e vecchi, donne (previamente violentate) e bambini, per immortalare e rendere virali le proprie gesta belluine, per rapire oltre duecento ostaggi e infine asserragliarsi a Gaza con due milioni di scudi umani, allora improvvisamente la parola “resa” è evaporata, lost in translation. Troppo allettante l’alternativa di salire in cattedra, ancora una volta nei confronti dell’aggredito, ancora una volta nei confronti dell’epitome di Occidente nel nuovo teatro di guerra, per impartire lezioni di moderazione e benaltrismo. Con il tono di chi la sa lunga su cosa non si deve fare e non a caso sorvola disinvoltamente su cosa potrebbe fare Israele per difendersi. “Premessa la condanna dell’attacco di Hamas……” “Premesso che Israele ha diritto di difendersi….” sono diventate queste le nuove giaculatorie introduttive del cerimoniale degli ignavi in luogo del “premesso che c’è un aggredito ed un aggressore” fin qui avaramente concesso agli ucraini. Tutte formule di rito idonee a scaricarsi la coscienza e sentirsi poi legittimati a prescrivere ad Israele, come all’Ucraina, un’esiziale impotenza alla quale entrambi questi paesi semplicemente non potrebbero sopravvivere. In buona sostanza, si è chiesto ad Israele di cedere al ricatto paralizzante dei secondini della prigione a cielo aperto di Gaza che si fanno scudo dei civili, pena l’incorrere nella riprovazione planetaria. Un ricatto nel ricatto.
Il cortocircuito del concetto di resa ha travolto anche quello di “aiuti militari”. Dopo quasi due anni in cui si è ripetuto che gli aiuti militari all’Ucraina aggredita e devastata sono il perverso alimentatore della guerra, giacché evitano agli ucraini la scelta obbligata della resa, ora d’improvviso non si registrano piazze che invochino di affamare militarmente Hamas. Le armi del mondo libero ad una democrazia azzannata e bisognosa di difendersi fanno scandalo, mentre non indigna il supporto bellico della teocrazia iraniana, dove le ragazzine vengono picchiate a morte per come si vestono, agli islamonazisti che mettono in gioco la sopravvivenza di Israele e che le armi le nascondono, non per caso, nella “metropolitana di Gaza”, un’immensa rete sotterranea di tunnel costruita sotto una delle aree più densamente popolate del pianeta. Un sottosopra da capogiro.
Ma i cortocircuiti non finiscono qui.
Fino al giorno prima dell’entrata in guerra di Israele, l’allerta fascismo in Italia era ai massimi livelli. I ghostbusters antifascisti in servizio permanente effettivo erano impegnati a setacciare ogni fregnaccia vagamente nostalgica degli eterni underdogs meloniani per denunciare il pericolo immanente di ritorno al fascismo. In uno con questa vigilanza, rimaneva (giustamente) altissima la sorveglianza rivolta alla più infamante eredita’ del fascismo, l’antisemitismo. Poi, nel più folle dei cortocircuiti, nel più delirante dei sottosopra, accade che, a sole due settimane dal pogrom jihadista che in ottant’anni maggiormente rievoca i fantasmi della “soluzione finale”, l’antisemitismo torni tra noi, dilaghi nelle piazze, sui social, nelle università. Rivendicato, esibito, rabbiosamente urlato, talora violentemente praticato, come nel caso della donna accoltellata a Lione. E che accade da noi? Nulla. Anzi, peggio. Nel momento in cui occorre chiamare a raccolta gli anticorpi disseminati in ottant’anni di compunta liturgia repubblicana, quella per intenderci dei solenni “mai più” pronunciati ogni anno in occasione del Giorno della Memoria, accade che la sinistra, la parte politica , intellettuale, mediatica autoproclamatasi custode di questo presidio, si spacchi tra i pochi che individuano subito il lato giusto della Storia, i più rumorosi ed estremisti che si rendono protagonisti del rigurgito antisemita ed infine un corpaccione afasico, aggrappato a logori distinguo tra antisionismo ed antisemitismo, irretito dagli esercizi di “maanchismo” ampiamente messi a punto con riferimento all’Ucraina. Ma, come detto, ci sono anche parole d’ordine e atteggiamenti che sarebbe stato saggio riporre o modificare e che invece sono stati tranquillamente mutuati dal teatro ucraino a quello israelo-palestinese.
Immutato, ad esempio, il fascino esercitato dalla formula del “cessate il fuoco”. Pietra filosofale agognata da tutti i pacifisti, soprattutto i più insinceri, il “cessate il fuoco” avrebbe, guarda caso, il magico, rectius diabolico, effetto di mummificare lo status quo: tacciono le armi ed Hamas resta lì a spadroneggiare a Gaza, le truppe di invasione russe rimangono lì ad occupare pezzi di Ucraina. Un canagliesco sistema premiante che, a fronte di un’effimera tregua, pone solide basi per altre guerre, per altro sangue.
Ma soprattutto il nostro dibattito pubblico, sembra condannato, dall’Ucraina a Israele, ad una deleteria coazione a ripetere nella lettura di quanto accade. Dall’accademia, agli studi televisivi, ai bar dello sport attecchiscono, seppur certo con preziose eccezioni, spiegazioni di pronta, e spesso rancida, beva. Spiegazioni che, a dispetto della rivendicata ed opportunistica complessità, non colgono in alcun modo l’enormità di quanto sta accadendo. Dalla grottesca tesi dell’abbaiare della Nato alla Russia alle spiegazioni fondate sulle critiche al governo Netanyahu, pur legittime e giustificate, o su una narrazione del conflitto arabo-israeliano spesso ben lontana dalla realtà dei fatti storici, si rimane comunque nell’ambito di interpretazioni non solo accomunate dal consueto odio di sé dell’Occidente, ma soprattutto del tutto inadeguate a cogliere la posta in gioco.
Dalla notte del 24 febbraio ’22 al pogrom del 7 ottobre è in atto un radicale cambio di paradigma che trascende le specifiche e precedenti ragioni locali di conflitto. L’attacco è all’ordine costituito dopo la seconda guerra mondiale e passa attraverso il tentativo di annullare gli esiti della vittoria delle democrazie occidentali nella Guerra fredda e di eliminare Israele, “prodotto del colonialismo” e avamposto dell’Occidente in Medio Oriente.
L’attacco è all’Occidente, al nostro sistema di valori, al nostro modello istituzionale ed economico e punta a disarticolarci, a farci implodere dall’interno, sfruttando la nostra democratica attitudine a sputarci addosso, il nostro dare per scontato l’assetto attuale. Eccolo il più tragico cortocircuito, il più surreale sottosopra: le guerre che crediamo altrui, che ci stancano perché le crediamo estranee, sono la nostra guerra.