di Flavio Fusi
Cartoline da Mosca e dintorni. Quelle lunghe file di blindati in- colonnati lungo l’autostrada, quelle patetiche fosse scavate per rallentare la marcia, quei camion pieni di sabbia abbandonati di traverso sulla via che porta alla capitale, e nella capitale quei cortei di auto in fuga verso chissà dove, le strade deserte, le porte sbarrate, il silenzio del potere, l’attesa di qualcosa di terribile che incombe. Di quelle immagini – dico – già il cronista era stato testimone trenta anni fa, data di nascita della Russia di oggi: la Russia di Putin e di Prigozin, di Kadyrov e di Lukaschenko. Anche allora – agosto del 1990 – ecco le lunghe file di tank che sbuffano lungo i viali che costeggiano la Moscova, le inutili barricate messe di traverso sugli ampi boulevards, i due carri armati della divisione Tamanskaya arenati dentro un sottopasso dell’Anello dei giardini. E intorno, la città che ronza allarmata, le notizie e le favole che si rincorrono, il silenzio del Cremlino, alla radio la litania del “Lago dei cigni”: eterna romanza per tempi di guerra e di lutto.
Nulla di nuovo, e tutto completamente nuovo. E dunque – per meglio interpretare questa matassa – indossiamo il cappello del filosofo della storia. O meglio: le penne della Civetta, la nottola di Minerva – ovvero la filosofia – la cui riflessione secondo Hegel arriva sempre di notte, dopo che i fatti, i nudi fatti, sono già accaduti. Sul piatto, ecco dunque il garbuglio russo in tre tempi. Anzi: in tre atti, con finale incerto.
Passato
Quando – nella notte di Natale del 1991 – la bandiera tricolore della Russia veniva innalzata sulle torri del Cremlino in un tripudio di fuochi di artificio e canzoni patriottiche, molti si illudevano sul presente e sul futuro prossimo del grande Paese ex-sovietico. La Nottola di Minerva può ben dire oggi: quella bandiera scolpita sul cielo nero della notte di Mosca era invece il simbolo di un Paese fallito e pericolosissimo, grande come un continente e infelice come una tragedia di Cechov. In altre parole: una tigre di carta con gli artigli nucleari, un cane di paglia pronto ad azzannare per fame e per vendetta.
Il fatale inciampo dell’Occidente fu allora quello di lasciare al suo destino il riformatore Gorbaciòv – consegnandolo ai suoi becchini – e scommettere sullo spiccio liquidatore del comunismo, il proconsole ex comunista, l’avventuroso ubriacone Boris Ieltsin. Errore capitale: all’Unione Sovietica sconfitta nella guerra fredda fu risparmiato il sacrosanto lavacro della denuncia e della penitenza. Settanta anni di orrori e scelleratezze, il supplizio di decine di migliaia nei gulag della Siberia, la morte per fame di milioni di esseri umani, la deportazione di intere popolazioni verso il nulla, la guerra dello Stato contro i suoi figli migliori, furono cacciati come polvere sotto il tappeto della storia, in una grande e scellerata amnistia.
Per dire: fu come se dopo la sconfitta del nazismo nella seconda guerra mondiale, l’Occidente vittorioso avesse scelto di affidare la nuova Germania a Heinrich Himmler, scampato al rogo del bunker di Berlino. Esagerazioni della nottola di Minerva, certo: per metterla in altro modo, più gentile, gli americani – perché loro avevano vinto la guerra dei settanta anni contro Mosca – commisero allora l’errore capitale di considerare l’ideologia più decisiva della geo-politica. Abbaglio ancora più grave, perché veniva dagli eredi di John Dewey, dai maestri riconosciuti del pragmatismo filosofico e dai cantori dell’esperienza concreta. Se non altro, la lunga epopea del Far West americano avrebbe dovuto insegnare che se un pistolero armato con la colt 44 dell’ideologia incontra un tiratore armato con il Winchester a canna lunga della geo-politica, il pistolero è un uomo morto.
Presente
Alla fine, come era logico, la lunga incubazione di un Paese fallito e spogliato dei suoi beni da una banda di oligarchi al servizio di politici irresponsabili ha creato il mostro perfetto: un Hitler slavo con la missione di riportare l’impero ai suoi antichi fasti, scatenando una guerra di erosione per la riconquista delle antiche frontiere zariste e comuniste: Moldova, Georgia, Cecenia, Donbass, Crimea, Ucraina.
E cosa ci raccontano le cronache di queste ultime ore? Ci raccontano per esempio che la Russia di Putin non ha più un esercito. Sorpresa! Ma non aveva scritto tutto questo venti anni fa la povera Anna Politkovskaya nei suoi reportage, quando raccontava – da giornalista sul campo – i gironi infernali di quella che fu l’Armata rossa sovietica: con le sue ruberie, le sue violenze, i suicidi, il nonnismo criminale, la miseria dei coscritti, l’arricchimento degli alti gradi, la lotta intestina senza tregua tra i servizi eredi del Kgb?
Per quel che vale: durante la campagna cecena, il cronista ebbe l’avventura di visitare per una giornata il quartier generale delle truppe russe a Mozdok, in Ossetia del nord. Quello che trovò furono gruppi di soldati ubriachi, scalzi e laceri, orchestrine che suonavano nel piazzale delle esercitazioni, blindati zoppi e malmessi, uffici devastati, ufficiali introvabili, generali che comandavano al telefono dai lontani uffici o dalle dacie di Mosca. Ecco: venti anni fa questa infelice marmaglia fece terra bruciata dell’intera Cecenia e consegnò il Paese ai tagliatori di teste e servi del Cremlino, di cui Ramzan Kadyrov è oggi l’ultimo rampollo.
Ancora: la cronaca di queste ultime ore ci racconta che la Russia di oggi è ridotta come una sterminata Libia: un Paese conteso da milizie armate e manipoli di lanzichenecchi al servizio dei signori della guerra, avidi di preda e di bottino. Questo è il pericolo: l’anarchia che già dilaga, il ricatto tra consorterie armate, l’irresponsabilità dei dignitari.
E la guerra contro l’Ucraina? Da tempo la guerra russa è ridotta al lancio di missili e droni armati contro le città e i paesi di quella infelice nazione: una tortura senza fine e senza scopo, se non quello di terrorizzare e martoriare. Sul campo – finchè dura il denaro e il ricatto – combattono solo le milizie prezzolate. Del resto è stato lo stesso Prigozin, prima di dare il via alla sua gita armata verso Mosca, a svelare che alla vigilia dell’invasione dall’Ucraina e dalla Nato non veniva alcuna minaccia contro la grande madre Russia. Ci voleva il cuoco di Putin a spiegare quello che il fior fiore di analisti politici e geopolitici nostrani non aveva ancora capito.
Futuro
Brancoliamo nel buio. Come al solito, la tragedia che si addensa alle frontiere orientali arriva alle calde spiagge del Bel Paese sotto forma di farsa o teatro dei pupi. Per un momento, i pacifisti integrali – infaticabili teorizzatori di un mitico tavolo di trattativa – hanno accarezzato l’idea di spacciare Prigozin come servo prezzolato della Nato. Poi qualcosa nel ragionamento si è inceppato: perché il servo della Nato non ha compiuto la sua missione, sfrattando dal Cremlino l’odiato presidente? E infine: può un Prigozin “pagato dalla Nato”, tornare al fronte come se niente fosse, a massacrare gli ucraini anch’ essi “pagati dalla Nato”? Così, in presenza di questa evidente aporia, si è scelto un silenzio operoso. Ma vedrete che tra breve i campioni della “pace in cambio di terre” se ne usciranno con una teoria nuova di zecca sulle trame dell’Occidente e l’orgoglio della Russia.
Più seriamente: oggi il futuro è più che mai una landa incognita. Dall’Europa si chiede – ed è giusto – una trattativa di pace, lo chiede lodevolmente anche il Papa argentino: ma a quel tavolo, chi si siederà dalla parte russa? Questo è oggi il grande e straordinario interrogativo: chi comanda a Mosca, e soprattutto: c’è qualcuno che ancora comanda a Mosca?
Accadeva così anche trenta anni fa, quando l’Unione sovietica si dissolse “non con un boato, ma con un lamento.” Le diplomazie di tutto il mondo si chiedevano: chi comanda a Mosca, chi è il grande burattinaio? E nei vasti saloni del Cremlino si aggirava intanto una compagnia di apprendisti stregoni ubriachi e terrorizzati dal loro stesso ardire: piccoli uomini tremebondi, di cui la storia si è giustamente dimenticata. Questo succedeva allora, ma la nottola di Minerva svelò lo storico arcano molti anni dopo, quando ormai il danno era fatto.
Così succederà anche oggi? Dice la vulgata giornalistica dei giorni del caos: Mosca è un alveare impazzito, una città al limite di una crisi di nervi, incerta e impaurita. Si può eccepire? Questo succede in centro, dentro i confini del Kalzò, l’Anello dei giardini che circonda i luoghi del potere e della ricchezza. Ma allarghiamo la prospettiva: la grande Mosca dei quartieri popolari, i casermoni di prefabbricati di epoca kruscioviana e poi brezneviana, la sterminata periferia cittadina, e – come in uno specchio – la sterminata periferia dell’immenso Paese invece tace, tace come sempre, in un silenzio di tomba.
Così succedeva trenta anni fa, e così – immagino – succede ora: un grande Paese annichilito, un’ opinione pubblica inesistente e muta, un lacero impero pronto a sottomettersi a ogni avventura e abbracciare ogni capobanda. Questo fa paura oggi, nel grande vuoto che segue alla marcia su Mosca del cuoco di Putin. Che non abbia ragione il grande Michail Bulgakov quando scrisse – e si era nei gloriosi anni Venti sovietici – un “allegro racconto m oscovita con finale tragico”.
Articolo tratto da Succedeoggi per gentile concessione