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di Maurizio Tarantino

Si sente spesso dire di un libro: “si presta a molteplici letture”. Nel caso di un romanzo è quasi sempre un buon segno, ma per un saggio la cosa è diversa. Può anche voler dire che l’autore non è riuscito a mettere bene a fuoco il suo tema; e la definizione allora è solo un modo elegante per dire che il libro è dispersivo o, peggio, superficiale.
I paesaggi dell’Italia moderna. Da Petrarca a Napoleone, è uno di quei libri che, fin dal titolo e dal sottotitolo, sembrano correre il rischio di rientrare in quella categoria. Se questo non succede, se un tema di tale vastità e trasversalità (soltanto un po’ attenuate dall’esclusione dei paesaggi “urbani”) riesce a essere trattato compiutamente in poco più di duecento pagine (stampate in corpo un po’ avaro per la verità), ciò va ascritto senz’altro a merito dei due autori.
Erminia Irace e Manuel Vaquero Piñeiro sono entrambi ottimi storici. La prima più orientata agli aspetti “culturali”, il secondo a quelli economici. E forse questi due “orientamenti” erano proprio quelli necessari a trattare un tema come quello del “paesaggio”, frutto del lavoro e del pensiero di «generazioni di contadini, proprietari, funzionari, agronomi, cartografi, pittori, scienziati, scrittori e viaggiatori» (come si legge nel bel paragrafo finale dell’Introduzione).
Era però anche necessario che l’aspetto “culturale” e quello “economico” del paesaggio italiano trovassero nel libro un equilibrio e un’adeguata ripartizione, all’interno del perimetro cronologico della cosiddetta età moderna (perimetro “classico” ma non per questo meno giustificato). E “classica” è anche la ripartizione: i primi due capitoli dedicati alla costruzione del paesaggio ad opera dell’azione congiunta dell’autorità politica, dei proprietari terrieri e delle forze del lavoro; i secondi due alla rappresentazione letteraria e artistica del paesaggio e alla sua teorizzazione. Definita la struttura del libro, non restava che riempirla di contenuti. Ma aqui està el busillis! (come avrebbe detto Antonio Ferrer). Malgrado i paletti cronologici e tematici la materia e le sue fonti erano immense: atti e carteggi pubblici, trattati, atlanti, libri di memorie, epistolari e, sul fronte della letteratura e dell’arte, qualunque prosa, verso, quadro, affresco, disegno, ecc. contenesse un qualche riferimento al paesaggio. Così il libro si articola attraverso “istantanee”, capaci però di rinviare l’una all’altra all’interno di una scorrevolissima narrazione. Le “istantanee” scelte dai due autori sono centinaia, e pur tuttavia sono solo «una goccia nel mare della casistica che potevamo prendere in considerazione». E per averne un’idea basta scorrere gli utilissimi indici, dei nomi e dei luoghi. Solo due esempi: uno per ciascuna parte del libro. La pagina dedicata alla “conca ternana”, come in un racconto, descrive come, da due elementi, il primo “naturale” (la ricchezza di fiumi e foreste), l’altro storico (la Via Flaminia), sia nato il paesaggio di una delle più significative aree manifatturiere del paese. Prima mulini e frantoi, poi, attraverso la privatizzazione delle acque, la nascita di vere e proprie isole, con cartiere e gualchiere, poi la lavorazione del ferro estratto a Monteleone di Spoleto, e infine la nascita della Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni.
Il secondo esempio suggerisce un’interessante chiave per la lettura del rapporto tra natura e cultura nella rappresentazione del paesaggio e, al tempo stesso, fa scoprire una veste di Pietro Aretino poco nota a chi lo identifica solo con lo scandaloso autore dei Sonetti lussuriosi, del Ragionamento e Dialogo e (forse) delle Pasquinate (scandaloso più “alla D’Annunzio” che “alla Pasolini”, come fu ben scritto da Nino Borsellino).
Siamo nel 1544 e il “flagello dei principi” vive da quasi vent’anni a Venezia, dove, con Jacopo Sansovino e Tiziano, aveva formato – notò, credo per primo, Adolfo Venturi nella voce TIZIANO, Vecellio dell’Enciclopedia italiana – «il “triumvirato” cui tutta Venezia colta e ricca si inchinava». Aretino scrive all’amico pittore e si diverte a imitarlo, “dipingendo” con le parole il panorama che vedeva dal suo palazzo sul Canal grande.
Un ultimo rilievo positivo sulla ricchissima e aggiornata bibliografia (circa quattrocento voci), che, ben collocata in appendice insieme agli indici, supplisce egregiamente all’assenza di pesanti note a piè di pagina. Trovo infine apprezzabilissimo il rilievo dato al grande e particolarissimo capolavoro storiografico di Emilio Sereni. Quella Storia del paesaggio agrario italiano, della quale viene ricordata nelle prime pagine del libro la faticosa e controversa storia editoriale, e nel cui solco i due autori hanno voluto, ambiziosamente ma molto più che dignitosamente, collocarsi.