di Franco Barbabella
Forse è l’ora di mettere a fuoco qualche questione non secondaria sull’uso politico delle parole. Sembra solo una questione di parole come se le parole fossero niente, ma è invece questione di concetti e di strategie perché le parole non sono mai il niente. Cominciamo così: le parole contano, lo sappiamo, lo hanno detto in tanti: Carlo Levi, “le parole sono pietre”; Nanni Moretti, “le parole sono importanti”; soprattutto, Hannah Arendt: le parole che diventano discorso e azione sono la politica, il “dispositivo umanizzante”, l’ambiente in cui può realizzarsi la libertà. Le parole dunque contano ma, com’è evidente, contano perché non sono flatus vocis, sono parole.
Sarebbe insensato che ignorassimo proprio noi questa verità, noi di questo tempo storico, non tanto perché viviamo nell’epoca della centralità della chiacchiera politica e della ciarla massmediatica, delle battaglie di parole sui social e del singolarismo estremista che utilizza le parole come armi contundenti, quanto perché appunto le parole veicolano pensieri, concezioni culturali, orientamenti politici, visioni del mondo.
Le parole sono significanti. Le parole che diventano discorso e azione sono cultura che trasforma la realtà. Sono politica. Ragion per cui le parole e i discorsi vanno maneggiati con perizia. Non tutte le parole hanno la stessa portata storica, ma ci sono parole non intercambiabili ad libitum: abbandonare una parola e adottarne al suo posto un’altra, non è atto indolore, ché spesso è un reale cambiamento di prospettiva, con conseguenze anche rilevanti, ideali e pratiche.
Colpisce la lontananza della classe dirigente da questa consapevolezza. Colpisce come la debolezza culturale si trasformi sul piano politico inevitabilmente in rincorsa frenetica ad accodarsi all’ultimo grido del messaggio al momento di moda. Il fenomeno coinvolge un po’ tutti, destra e sinistra, ma la sinistra in questa gara non ha rivali.
Si prenda il messaggio veicolato dalla parola woke, originariamente adottata negli ambienti intellettuali della sinistra americana per designare attenzione e rifiuto delle discriminazioni (sessuali, razziali, ecc.) e rovesciatasi nel giro di poco tempo in arma contundente degli ambienti di destra contro il politically correct e la cancel culture bollati come sterilizzazione delle differenze e però nel frattempo diventati cult della sinistra nel passaggio dall’America all’Europa, e per certa sinistra italiana poi una specie di dogma. Come dire la perfezione storica a posteriori ottenuta con l’applicazione al passato dei criteri di giudizio del presente. Come se la storia la facessimo solo oggi, in sostanza l’eternizzazione del presente.
Senza nemmeno accorgersi che nel Paese di origine, l’America, già da tempo la sinistra intellettuale si era accorta dell’inganno reazionario (ad es. Anne Applebaum) insito nell’operazione di cancellazione della storia e che la resipiscenza stava ormai coinvolgendo non solo la sinistra democratica ma anche quella socialista (ad es. la filosofa americana Susan Neiman e il noto studioso del nazionalismo, il turco Umut Özkirimli).
Com’è evidente, con la battaglia delle parole si può passare rapidamente dal radicalismo giustizialista/rivoluzionario al giustizialismo conservatore/reazionario. Oppure si può lasciare, per quell’ignoranza che sacrifica la storia al rumore del presente, che si permetta alla destra di appropriarsi di parole e significati che appartengono a storia e lotte della sinistra. Un esempio recente è la decisione di togliere dalla toponomastica di Bologna la parola “patriota” perché usata frequentemente dalla destra, quando essa appartiene sia alle lotte risorgimentali che alla lotta di liberazione partigiana (basterà leggere il bel volume di Fabio Finotti “Italia. L’invenzione della patria”, e in esso le parti dedicate al Risorgimento e a Piero Calamandrei). Un caso di ignoranza che si sposa perfettamente con la stupidità.
Ad ogni modo c’è da riflettere in generale, perché c’è più di un caso di inganno della liberazione che si pretende di ottenere con parole che non liberano perché in quanto tali non possono liberare e di fatto colludono con l’avversario che si vorrebbe combattere o gli forniscono argomenti senza rendersene conto. È come se a sinistra, dimenticando la sua stessa storia, si sia radicata una scarsa consapevolezza della complessità e dell’importanza dei fenomeni culturali e delle loro implicazioni nel dare verso alle battaglie politiche.
Per cui, mentre da una parte permane una fedeltà a concezioni e schemi di ragionamento che non vengono scalfiti nemmeno dalle evidenze di realtà (si pensi alla difficoltà di prendere atto del fallimento del socialismo realizzato da intendere come regime comunista), dall’altra c’è come una perenne ed irrequieta esigenza di identità che, se non la si ricerca in prospettive estreme, passa quasi sempre per tradimento. Comunque, guai ad attestarsi su posizioni di razionalismo gradualista e di analisi fattuale. Mi verrebbe da dire: guai a definirsi riformisti, guai doppi a dirsi socialisti, liberali o liberalsocialisti.
E così accade che si debba vedere il fascismo anche dove con tutta evidenza non c’è e al contrario non si riesca a vederlo e a combatterlo dove con tutta evidenza c’è, purché si riesca a leggerlo avendone gli strumenti. Ne hanno fatto oggetto di interessanti e importanti riflessioni, dopo gli eventi di Firenze e della successiva manifestazione di antifascismo militante, sia Massimo Recalcati che Adriano Sofri. Importanti, perché invitano a non cadere nella trappola delle grida ad ogni occasione del fascismo alle porte, perdendo così di vista la natura stessa del problema.
Sofri nota che, poiché “il fascismo, o è a modo suo ben oltre le porte e si affaccia al balcone da legittimo padrone di casa, o è una imbarazzante parodia”, l’antifascismo non può che essere “la premessa – della libertà, della Costituzione, un po’ di tutto”. Ovvio dunque che per essere antifascisti non c’è bisogno di gridare con troppa facilità al fascismo alle porte, perché “chi voglia dichiarare superata la premessa è un cialtrone o un lazzarone. L’antifascismo non è superato, e non è un programma politico: è la premessa”. Chiaro, mi pare.
Chiaro anche Massimo Recalcati, che da bravo psicanalista richiama la scomoda verità che non basta proclamarsi antifascista per esserlo sul serio. Quando siamo di fronte a fenomeni storico- culturali che hanno a che fare con grandi eventi della storia, non ce la possiamo cavare solo con la denuncia, la vigilanza e le manifestazioni: dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo penetrare sotto la scorza. In questi casi la liberazione non avviene una volta per tutte e comunque non è una liberazione di parole che si accendono e si spengono a comando.
Scrive Recalcati: “Gille Deleuze riteneva che il presupposto di fondo della lotta antifascista avesse come prima e imprescindibile condizione la lotta contro il fascista che ognuno di noi porta dentro di sé”. Dobbiamo dunque aver chiaro che “l’intolleranza per la differenza, la convinzione dogmatica di detenere una verità assoluta, la giustificazione politica della violenza, l’odio e lo scherno, la rappresentazione della Destra come culturalmente indegna, … sono tentazioni fasciste e autoritarie che hanno paradossalmente trovato diritto di cittadinanza nella cultura di gruppo dell’antifascismo”. Parole dure che riprendono quelle di Pasolini, che diffidava della retorica antifascista essendo convinto che con essa di fatto si nascondesse un fascismo subdolo sotto le vesti di una democrazia apparente. Per questo alla fine la domanda cruciale di Recalcati diventa questa: a distanza di ottant’anni dalla fine del regime fascista possiamo finalmente tentare di non fermarci alle dichiarazioni e ritenere la pratica antifascista quella che ci consente di rigettare la cultura autoritaria che alberga in noi, quella che “spesso ha trovato proprio in una certa cultura di sinistra cosiddetta antifascista il suo terreno di coltura”?. Giacché deve restare chiaro che, comunque li si ammanti e sotto qualunque segno li si presenti, aspetti di realtà come “l’aggressione organizzata, l’uso ideologico della violenza, i comportamenti vandalici, l’esibizione dei simboli dell’odio sono chiaramente estranei allo spirito della democrazia”.
Ecco qua, lo spirito della democrazia al di là delle sue forme storicamente realizzate. Di che cosa parliamo? Riflettiamoci un attimo: la democrazia ha limiti e difetti, ma la sua caratteristica è data proprio dal fatto che li ha e la sua forza dal fatto che può correggerli autocorreggendosi. Lo spirito della democrazia è proprio l’accettazione dell’imperfezione, la coscienza del limite consustanziale, che si ripropone per questo in forme diverse e attende di essere superato, richiedendo con ciò studio, consapevolezza, confronto, partecipazione, esercizio della responsabilità.
Ma allora questo spirito non aleggia o non aleggia a sufficienza quando si stiracchia il diritto frantumandolo per rincorrere identità particolari adattandolo alle singole tipologie della condizione umana o ad aspirazioni o addirittura ad egoismi e paure, per non parlare di interessi e poteri. Con ciò non si vuol sostenere che i diritti individuali non contano ma che, come dice Guido Vitiello, i guai a sinistra sono cominciati quando settori della sinistra hanno pensato bene di flirtare con il populismo per coltivare i diritti frantumati, incontrandosi così inevitabilmente con analoghe correnti della destra. Un esempio sono i no vax, un altro i no-tap e i no-all, un altro ancora i putinisti. All’origine c’è aver “voltato le spalle alle idee illuministiche … su tutte l’universalismo, che è agli antipodi del tribalismo identitario”. E così ora abbiamo “intersezionalità” contro “universalismo”, con l’illusione di affidare ad una parola tecnica (sovrapposizione e interazione di diverse categorie biologiche sociali e culturali e relative possibili discriminazioni) una missione politica di unificazione di soggetti diversi per azioni di sensibilizzazione e liberazione.
Ma abbandonare i territori arati lungo la storia moderna dalle forze intellettuali e sociali della liberazione verso una democrazia sempre più consapevole e realizzata, non è solo cedere alla fragilità delle suggestioni identitarie a danno della solidità del pensiero che respira a pieno cervello e a cuore aperto, è affidarsi alle contraddizioni del particolarismo che contrasta con la fatica del pluralismo proprio dell’universalità dei diritti e dei doveri individuali dentro la cornice democratica delle comunità.
Se si vuole determinare un avanzamento moderno del Paese bisognerà progettare il futuro tenendo conto anche di questo, o forse partendo proprio da questo. Nell’universalismo infatti si condensa lo spirito dell’occidente, che è libertà, stato di diritto, democrazia, aspirazione alla giustizia e all’uguaglianza. L’Italia per molti versi attende ancora di essere un Paese moderno e perciò anche chi è disposto a spendersi sul serio per accompagnarlo all’appuntamento.
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