di Gabriella Mecucci
Fu quell’esecuzione per mano partigiana che “regalò” a Luisa Ferida e a Osvaldo Valenti una sorta di eterno ritorno? Oppure è stato il fascino oscuro del crimine? O il mito estetizzante dei belli e dannati? O tutte queste cose insieme? I due amanti diabolici, divi del cinema del Ventennio, morirono fucilati il 30 aprile del 1945. Lei incinta di quattro mesi gridava il suo amore, lui le stava vicino e sussurrava: “Saremo uniti per sempre”. La condanna a morte – secondo chi la eseguì – era stata pronunciata dal Cln, ma l’uccisione fu vissuta da più parti come un atto di “giustizia sommaria”, consumatosi negli stessi giorni di Piazzale Loreto. Un frutto marcio dunque della guerra civile.
Chi erano questi due tragici personaggi, accusati di complicità con le gesta criminali di una banda di torturatori fascisti? E come e perché vissero in ’Umbria il penultimo atto della loro vita?
Attori di grande successo nell’epopea dei telefoni bianchi, avevano aderito con entusiasmo al regime. Lei, bella, affascinante, inquietante, rappresentava uno dei simboli di una società che voleva esibire il proprio benessere, la propria modernità e la propria capacità di vivere e di accettare la trasgressione. Il regista che meglio utilizzò il suo talento drammatico e la sua sensualità fu Alessandro Blasetti. Fu proprio mentre veniva girato un suo film che Ferida conobbe Osvaldo Valenti. Un breve incontro e subito coup de foudre. Anche lui era bello, anche lui era un attore notissimo, anche lui era fascistissimo (diventerà ufficiale della Decima Mas). I due erano letteralmente sedotti da Mussolini e da Hitler. In realtà non furono i soli, ma in loro c’era un di più di fanatismo e di sadismo.
Quando i tanti cineasti di regime abbandonarono il duce alla sua sorte, i due amanti al contrario si compromisero con Salò, ed entrarono in rapporto con la banda Koch, la feroce polizia segreta che terrorizzò Milano.
Prima che iniziasse l’ultimo atto della loro vita si fermarono in Umbria. Per la precisione vissero nel castello di Parrano, un piccolo borgo di poche centinaia di anime, a poco più di mezz’ora da Orvieto. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida sembra che vivessero nel lusso e nella dissolutezza: la droga – si racconta – scorreva a fiumi. Lui, di origine nobiliare e figlio di un diplomatico, sembrava innamoratissimo di Luisa e cercava di soddisfarne tutti i desideri, tutti i capricci. La loro dimora umbra era di proprietà del petroliere editore Attilio Monti. Dicono le testimonianze che Ferida passeggiasse spesso per il paese e che ebbe una storia di sesso con un giovane del posto. Durò in tutto una settimana, ma a Parrano se n’è parlato per decenni. Vero o falso che fosse, fa parte della narrazione locale. Come e perché la coppia decise di andarsene non si sa. Probabilmente lui – il più fanatico fra i due – desiderava trovarsi là dove si stava vivendo lo scontro finale, nei luoghi dove si consumava l’epilogo della guerra voluta dal fascismo. Quanto a lei sembra che più che artefice della decisione, vi aderisse passivamente. Avrebbe forse preferito restare in Umbria. Fu un soggiorno di pochi mesi quello a Parrano, difficile da datare. Certamente dopo l’8 settembre. Una parentesi di serenità, durante la quale non aleggiò mai l’ombra sadica che altrove avvolse gli amanti diabolici.
A Milano intanto si era già formata e operava la banda Koch. Catturava antifascisti e li rinchiudeva nei sotterranei di Villa Triste: luoghi umidi, superaffollati, col soffitto basso da toglierti l’aria. In una parola invivibili. Si usciva da lì per essere portati al piano di sopra dove si veniva interrogati e torturati. Tanto era spaventosa quella prigionia che una testimone raccontò di aver tirato un sospiro di sollievo quando arrivò un ufficiale della wehrmacht: il militare tedesco appariva di gran lunga più rassicurante di quegli spietati “poliziotti speciali”.
Villa Triste era insomma un inferno e gli uomini della banda Koch sembravano personaggi demoniaci. I sopravvissuti hanno raccontato le torture: docce ad acqua bollente che producevano profonde e dolorose ustioni, trapanazioni dei nervi dentari e altre crudeltà ancora più inascoltabili. I prigionieri, oltre a queste “sevizie scientifiche”, subivano anche “percosse, bastonature, staffilate sul corpo nudo con cinghie”, mentre il capo, Pietro Koch s’inebriava di quella violenza. “Era un esteta del supplizio – ha raccontato un secondo testimone – gli piaceva veder soffrire la gente. Le grida di dolore dei torturati gli davano brividi di godimento”. Luisa Ferida e Osvaldo Valenti si incontrarono con lui, poco dopo che erano giunti al nord, e frequentarono con continuità la casa degli orrori. Sentivano le grida dei prigionieri. Probabilmente li vedevano coi volti tumefatti e sanguinanti. Nelly Valenti, sorella dell’attore ha raccontato: “Osvaldo e Luisa erano invitati spesso a cena da Koch, perfetto anfitrione; le pietanze venivano da Giannino, un ristorante vicino, che lui aveva fatto requisire per suo uso e consumo. I prigionieri che stavano sotto, nelle celle, vedevano passare le portate – pesci in salsa maionese, costate enormi e sanguinolente, torte millefoglie, bottiglie di champagne. Verso le nove di sera la casa risuonava tutta di musiche e di risa. Osvaldo ci si muoveva come sul set, con la consueta maestria d’attore, con teatrale asetticità, visitando con interesse morboso le celle e attribuendosi lo strano compito di soccorritore, offrendo cibo e altre cose ai disgraziati che dopo le torture venivano di nuovo rinchiusi: piagati, fratturati, grondanti sangue”. Virginio Pozzi, prigioniero di Villa Fossati, così in realtà si chiamava Villa Triste, testimoniò di avervi incontrato una Ferida seminuda che gli avrebbe fatto “intendere che bastava parlare per avere la ricompensa del suo corpo malioso”. Lisa Giua Foa, anche lei catturata dalla banda Koch ha più volte confermato di aver visto l’attrice in abiti discinti mentre cercava di sedurre i malcapitati. La stessa testimone ha riferito che nella villa erano tutti dediti alla droga. Osvaldo Valenti, in qualità d’ufficiale della decima Mas, ha sicuramente avuto un qualche ruolo definito in seno al reparto Koch. Alcune testimonianze lo indicano come presente agli interrogatori in cui venivano fatte violenze di ogni tipo. C’è chi ha raccontato che l’attore a volte, nel bel mezzo di queste sedute, recitasse con in mano una scarpetta da neonato, in ricordo del figlio che lui e la Ferida avevano perso.
Non esistono però prove che la coppia avesse preso parte attivamente alle torture, ma è da escludere che, almeno lui, non sapesse cosa avveniva a Villa Triste. L’ipotesi più scellerata è che i due utilizzassero il dolore degli altri come una sorta di eccitante palcoscenico per le proprie gesta di artisti. Quando compresero con grande ritardo che per il fascismo era finita, ebbero un brusco soprassalto e si consegnarono spontaneamente ad una banda partigiana (la Pasubio), sperando così di salvare la pelle. A coltivare l’illusione di farcela sembra sia stato soprattutto lui, mentre lei avrebbe seguito passivamente la volontà dell’amante.
Della loro vita e della loro fine hanno scritto in molti. Alcuni condannandoli senza appello, altri con un atteggiamento più blando e assolutorio: il caso più autorevole è quello di Jean Baudrillard. Il raffinato filosofo francese ha sostenuto che le vere ragioni della fucilazione non furono le loro colpe ma la loro bellezza e la loro trasgressività. Lo ha fatto nel suo ruolo di consulente culturale di Gian Marco Montesano, autore e regista di “Fascino”, una pièce teatrale che racconta la storia dei due attori e che si concentra in particolare sull’ora
che passarono insieme prima dell’esecuzione. Chiusi in una stanzetta di fianco alla sala degli interrogatori, Ferida e Valenti ascoltano i rumori: le urla, le risate, le crudeltà che giungono dai locali attigui, e che rompono il silenzio della loro disperazione. L’opera di Montesano e Baudrillard indaga con compiacenza sulle loro responsabilità. Forse la colpa dei due amanti – spiegano gli autori – è solo l’aver avuto troppo dalla vita in un periodo in cui si arrivava a malapena a sbarcare il lunario: gli idoli hanno pagato così con la morte il
prezzo dell’idolatria che li circondava. O forse la ragione della tragedia sta nell’aver concesso la loro immagine colma di seduzione all’uso propagandistico del regime: l’essersi dunque offerti come strumento di persuasione politica. O forse la spiegazione è ancora più tortuosa: “Se non fossero stati così belli, così seducenti, Ferida e Valenti non sarebbero stati fucilati. Perché la bellezza per la sua insolenza, per la sua perfezione, è un crimine inespiabile”. Baudrillard e Montesano trasformano così i carnefici in vittime. Non conta più ciò che essi hanno fatto ma ciò che hanno rappresentato. Ciò di cui sono diventati il simbolo. Nei primi dieci anni del Duemila la cupa mitologia della coppia ebbe di nuovo una ventata di protagonismo. Marco Tullio Giordana ne ricavò prima un film e poi
una ficton – “Sanguepazzo”- con Monica Bellucci e Luca Zingaretti. Non fu l’opera migliore del regista. Con l’argomento si cimentò anche Italo Moscati.
Aldilà della versione estetizzante di Baudrillard, la lettura innocentista della vita dei due “belli e dannati” si fa forte anche di una pezza d’appoggio fattuale che metterebbe in discussione l’esattezza della testimonianza di Virginio Pozzi, il prigioniero che l’attrice cercò di ammaliare. Giuseppe Pagano, un altro degli arrestati dalla banda Koch, ha sostenuto infatti che la donna, che il 26 agosto ballava nuda e cercava di sedurre quei poveri cristi distrutti dalle torture, non poteva essere Luisa Ferida. Quel giorno, in cui sarebbe stata vista da Pozzi, l’attrice era andata infatti in macchina con Maurizio Vitali a Venezia. Al ritorno, nel tardo pomeriggio, i due ebbero un incidente nei pressi della periferia di Padova e rimasero seriamente feriti: lei, in particolare, riportò la frattura delle rotule, come attesterebbe un certificato dell’ospedale. Quindi non poteva ballare a Villa Triste né quella sera né nei giorni successivi. Il memoriale di Pagano è il più importante documento a supporto delle tesi innocentiste. A questo però i colpevolisti ribattono che i testimoni che avevano riconosciuto Ferida nell’ammaliattice erano più d’uno.. E che ciò non accadde solo quel 26 agosto. Quindi, anche se Pozzi fosse caduto in errore o fosse mendace, altri racconti confermerebbero le responsabilità dell’attrice.
Sin qui le posizioni di chi tende a circoscrivere le colpe dei due amanti. C’è poi una letteratura che va ben oltre. Cerca cioè di raccontare la storia della coppia in chiave buonista: lei – secondo questa versione – non si sarebbe mai recata a Villa Triste, mentre lui qualche volta lo avrebbe fatto, ma al solo scopo di soccorrere i torturati. Questo tentativo prese corpo con un libro di Odoardo Reggiani, “Ascesa e caduta di due stelle del cinema”, edito Spirali. Lisa Giua Foa, fra i pochissimi testimoni che nel 2004 era ancora in vita, scrisse una lettera di suo pugno in cui fornì un’articolata versione dei fatti. Fra l’altro affermò: “Ho visto più volte Luisa Ferida dalla finestrella della cantina dove ero reclusa nell’estate 1944, arrivare sulla sua lussuosa macchina insieme a Osvaldo Valenti. Se io, assieme a Carla Badiali – e ad altri – ci siamo salvate da quella vicenda è stato per l’ispezione compiuta da alcuni ufficiali medici della Wehrmacht (di cui mi ricordo con molta riconoscenza), su sollecitazione dell’arcivescovo di Milano, che decretarono che due donne in stato interessante non potevano stare in quelle condizioni. Per cui io e Carla fummo trasferite a San Vittore. Nessuna intercessione umanitaria da parte di Ferida-
Valenti”.
C’è da giurarlo, la discussione proseguirà. E il fascino diabolico dei due amanti colpirà ancora. Ogni volta che il loro caso si riapre è fatale che si formino due partiti. E anche a Parrano si continuerà a raccontare della loro presenza e di quella breve passione della leggendaria diva dei telefoni bianchi per un prestante giovanotto locale.