di Lucio Caporizzi
Quando si vuole descrivere la complessiva situazione socio-economica dell’Umbria, si prendono a riferimento prevalentemente dati riferiti all’andamento del Prodotto interno lordo (Pil), ai redditi percepiti dagli umbri, oppure si ricorre ad indicatori più “sofisticati”, quali quelli che misurano, in vari modi, la capacità di innovazione del sistema produttivo regionale.
Il quadro che ne emerge conferma il declino dell’economia regionale, che appare ancor più marcato se la comparazione viene svolta non con gli analoghi dati nazionali ma con quelli rilevati a livello europeo. La comparazione dell’andamento del Pil pro-capite umbro con l’analogo dato riferito alla media europea, per esempio, è un esercizio molto usato, oltre che molto significativo, pur con tutti i limiti rappresentati dall’uso di un indicatore sintetico ed incompleto come il Pil.
Il Pil pro/capite umbro che, fatto pari a 100 il dato europeo nel 2000, era in quell’anno pari a 119, 20 anni dopo è crollato fino al valore di 84. Per inciso, tra le componenti del Pil, è la produttività del lavoro la causa principale del calo; mentre valori quali il tasso di occupazione, infatti, hanno presentato anche andamenti positivi per l’Umbria, la produttività del lavoro è sempre in territorio negativo e ha sempre rappresentato il vero problema per lo sviluppo della regione.
Ma vi sono altre grandezze, con i relativi indicatori, che rendono l’idea di una realtà che va da tempo ripiegandosi su sé stessa, perdendo slancio e vivacità. Nulla di catastrofico, intendiamoci. Sbaglia, infatti, chi, ponendosi all’opposizione di chi governa, dipinge l’Umbria tutta a tinte fosche, come fosse sull’orlo di un baratro, così come, parimenti, sono criticabili coloro che, sul versante opposto, descrivono con enfasi fantasiosi sentieri di
crescita e sviluppo. È un processo graduale, non necessariamente sempre unidirezionale e lineare, che presenta anche aspetti in controtendenza , ma il cui andamento generale è chiaramente descritto dai dati.
Vi sono altre grandezze, si diceva.
Per esempio l’emigrazione dei giovani laureati umbri, in cerca di migliori opportunità professionali e corrispondenti trattamenti economici. Nel confermare un grado di scolarizzazione degli umbri superiore alla media italiana, i dati ci segnalano come fino ai primi anni duemila l’Umbria fosse “importatrice” netta di giovani laureati, nel senso che erano più quelli che restavano o venivano in Umbria rispetto a quelli che sceglievano di andare via. Dal 2013 il tasso di migrazione netto dei laureati e diventato negativo, crescendo poi progressivamente di anno in anno, con un probabile rallentamento negli anni della pandemia, con un saldo netto stimato da Banca d’Italia in circa 200 unità annue.
L’esodo dei laureati, in cerca di lidi migliori, si accompagna all’incremento di coloro che scelgono di andare a studiare fuori regione, prevalentemente in atenei del Nord Italia: nell’anno accademico 2021-2022, infatti, oltre il 9% di universitari residenti in Umbria risultava iscritto in Atenei del Nord, mentre 10 anni fa tale percentuale era di poco superiore al 3%. I laureati umbri che vanno a lavorare all’estero, a loro volta, sono il decuplo di quanti erano una dozzina di anni fa.
A sua volta, anche la demografia ci fornisce interessanti spunti di riflessione, confermando anch’essa, purtroppo, quel processo di ripiegamento su sé stessa della nostra regione. A tale proposito particolare interesse presenta il recente Rapporto AUR (Agenzia Umbria Ricerche) sulla crisi demografica dell’Umbria, ben inquadrata nel generale calo di popolazione del Paese, all’interno del quale, però, con appena 1,13 figli per donna, la nostra regione si colloca agli ultimi posti come tasso di fecondità. Valore, questo, che scende a 1,09 se si considerano solo le donne italiane.
Negli ultimi 10 anni l’Umbria ha perso oltre 42.000 abitanti, passando dagli 896.742 del 2014 agli 854.137 del 2023. Tale fenomeno è il risultato di saldi naturali sistematicamente negativi, non compensati da saldi migratori positivi, ma insufficienti a colmare il divario e, peraltro, anche calanti a livello nazionale. È risaputo, infatti, che mentre in Paesi come la Germania i flussi migratori vengono gestiti e programmati in funzione delle esigenze del mercato del lavoro, in Italia la questione viene invece interpretata prevalentemente in termini di sicurezza ed ordine pubblico, spesso anche in modo strumentale.
Tornando alla nostra Umbria, vediamo infatti che nel 2023 si sono registrati appena 4.920 nati vivi, a fronte di 11.606 decessi.
In tempi di elezioni comunali, riveste particolare interesse anche l’articolazione territoriale di questa crisi demografica, nella sua evoluzione come presentatasi da inizio secolo. Nel periodo 2001-2009, tutte le fasce dimensionali dei comuni umbri presentavano valori medi positivi di crescita demografica, con il massimo per la fascia tra i 10.000 e i 29.999 abitanti. Nel successivo periodo tra il 2009 ed il 2016, inizia a manifestarsi la contrazione, concentrata sulle prime due fasce, cioè tra 0 e 2.999 abitanti. Il periodo che segue, cioè tra il 2016 ed il 2023 segna la netta inversione di tendenza, estesa a tutte le fasce dimensionali, comprese quindi le due città capoluogo e, anche qui, particolarmente acuta per quelle più piccole.
Dunque abbiamo un calo generalizzato della popolazione umbra, calo che accentua il fenomeno di spopolamento dei piccoli e piccolissimi centri, ma che non risparmia neanche quelli più grandi, i quali, quindi, non esercitano più quel potere di attrazione che avevano fino a poco tempo fa. Insomma, borghi e piccoli centri si spopolano non esclusivamente a seguito di processi di migrazione interna verso i centri maggiori, ma anche perché nelle aree marginali sono più acuti gli squilibri tra nascite e decessi e meno pronunciato il flusso migratorio estero. Ciò conferma la necessità della prosecuzione di apposite politiche per le aree interne, chiamando anche ad una valutazione dell’efficacia di quanto fin qui realizzato.
Le città più grandi pagano anch’esse “pegno”, ponendo ulteriori dubbi sul futuro della regione, atteso che da un pezzo sono le città i luoghi di sviluppo e valorizzazione della conoscenza e dell’innovazione, processo questo che, quando si verifica, porta a positive ricadute a favore di tutto il territorio regionale.
Si spera che le misure e gli investimenti sostenuti dal PNRR, come pure dai programmi per le aree interne e dall’Agenda urbana dei Programmi europei 2021-2027 possano efficacemente contribuire a invertire queste negative tendenze.