di Giuliano Compagno
“Montanelli, che futuro prevede per l’Italia?”. La domanda l’aveva posta Alain Elkann. Il giornalista si concesse tre secondi di riflessione: “Per l’Italia, nessuno! Per gli italiani sì, prevedo un futuro.” Avrebbe poi spiegato che quell’avvenire i nostri concittadini l’avrebbero conquistato grazie alla loro capacità di adattarsi oltre confine a qualsiasi condizione e a qualunque regola, perché in fondo siamo un popolo che sa praticare l’umiltà. Non era una risposta a caso per impressionare l’interlocutore ma il ragionamento di un giornalista che stava pensando da storico.
Ogni volta che ricordo quel frammento televisivo o che mi godo certi interventi di Arrigo Levi, di Giorgio Bocca, di Eugenio Scalfari, di Enzo Biagi e compagnia bellissima, rimpiango uno stile di giornalismo che oggi non trova più dimora ma che, fin dentro a drammi atroci, dimostra una omertosa pigrizia di analisi. A oltre due anni dall’invasione “sovietica”, il banale dibattito italiano è impantanato in una raffica di “sentito dire” e di scommesse clandestine sparate da opinionisti d’occasione, orecchianti, sedicenti sociologi, politologi da chiacchiera e professori senza concorso.
Costoro annaspano in un tale vuoto sistemico da non coniugare mai gli eventi contemporanei ai fatti storici, nemmeno troppo lontani, vissuti e subiti da nazioni e da popoli. La sola questione a cui si appellano i pacifisti degli altri con incontrollata superficialità è quella linguistica, come se il linguaggio fosse stato padrone della storia e non semplicemente di un’umanità asservita. Non si deve pretendere che i vari Orsini, Basile, Santoro e Di Battista conoscano Heidegger. Diranno certamente che sì, che lo hanno letto, ma noi li sappiamo arenati alle quarte di copertina. Basterà una pazienza infinita oppure la prontezza di cambiare canale. A questo favoloso poker di giocatori senza posta, si è presto aggiunto Marco Travaglio, artefice di una riuscita scommessa editoriale: quella di vendere quando si sta all’opposizione, cioè sempre.
In un esercizio di vanità esasperata, egli si gloria da decenni della stima che Montanelli gli avrebbe riconosciuto, al punto di assumerlo giovinetto. Ma proprio per questa medaglia al valor redazionale, dispiace che il soldatino Travaglio non abbia seguito l’insegnamento e lo zelo critico del suo maestro. In poche parole delude l’appiattimento di un giornalista culo e camicia con una squadretta di coloristi che sin dall’inizio han travestito l’invasione sovietica del febbraio ’22 come l’inevitabile destino di un piccolo paese senza storia. Le pennellate, trite e ritrite con una comica petulanza: dal colpo di Stato (sic!) di Majdan 2014; la nazificazione dell’Ucraina (sic sic!); l’arroganza della Nato e l’insipienza dell’Unione Europea (piace vincere facile ai 5 eroi); le provocazioni ucraine (!) nel Donbass russofono oltreché russo per diritti acquisiti; l’assodata tossicodipendenza (?) di Zelensky, ex comico.
Oltre non si va, anche perché, se ci si andasse, il rischio sarebbe di perdere quel bacino di lettori estremisti, nostalgici e pacifisti alla Monaco 1938, novax, nokiev, no-uber, no Biden (e forse tifano persino Trump)… insomma questa paccottiglia che garantisce abbonamenti a un quotidiano di opposizione permanente, non nomina mai, perché se ne vergogna, il Majdan 1990, quelle due settimane di pacifica protesta che permisero a studenti e a manifestanti di ottenere la firma di una risoluzione che garantisse il rispetto delle richieste dei manifestanti: sciogliere il parlamento, indire nuove elezioni su base multipartitica nella Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina e annullare quelle contestatissime del marzo 1990, allorché due terzi dei seggi erano andati ai comunisti; la nazionalizzazione dei beni di proprietà del Partito Comunista dell’Ucraina e del Komsomol; la limitazione del servizio di leva obbligatorio al solo territorio nazionale dell’Ucraina; le dimissioni dell’allora primo ministro Vitaliy Masol; infine la non-firma del nuovo Trattato dell’Unione Sovietica.
Non credo che Orsini abbia mai accennato al 18 ottobre 1990, “quando i leader della protesta Oles Doniy e Markijan Ivaščyšyn annunciarono in televisione la fine dello sciopero della fame, la liberazione degli edifici universitari occupati e lo smantellamento delle tendopoli: la Rivoluzione del Granito era ufficialmente finita e il popolo ne era uscito (quasi) vincitore”…
Spazzata sotto il tappeto la loro memoria storica, malamente urlacchiata negli show, gli indomiti paladini della guerra-lampo aggressiva non fanno mai riferimento all’Holodomor. Più o meno significa morte per fame indotta; fu l’esito della repressione criminale avviata dal regime stalinista contro i kulaki e i piccoli contadini avversi alla riforma agraria.
Quale sarebbe l’attendibilità di un giornalista che, nel prendere posizione sull’invasione di una terra libera da parte di un paese confinante, non fa alcun riferimento ai fatti storici che un secolo prima erano stati la causa di qualche milione di morti per inedia. Gli ucraini erano stati affamati da un potere criminale. A quasi cento anni di distanza, colui che strumentalmente tace su una ragione così tragica di ostilità di un intero popolo nei confronti del proprio carnefice, quegli è complice dell’aggressore odierno. Che ignori o nasconda la storia, non fa differenza: la sua voce e il suo giudizio non contano niente.
La “contro-informazione” degli inventori di una cultura comparata russo-ucraina ha sempre glissato su una questione così importante da essere costata, all’Europa del secolo scorso, decine di milioni di morti. Allora fu la germanofonia, oggi la russofonia. Attualmente vige il preconcetto che l’idioma ucraino sia da sempre una sorta di dialetto a ovest di Mosca.
Eppure l’origine della lingua ucraina risale al 988. In quell’anno, nell’antico Stato slavo orientale Rus’ di Kyiv, si diffuse lo slavo ecclesiastico che Cirillo e Metodio avevano ripreso dagli antichi dialetti bulgari. I testi religiosi e ufficiali erano scritti in quella lingua e, per oltre quattro secoli, dal XIV al XVIII, l’antico slavo sarà una lingua scritta. Da qui si risale al principio della lingua nazionale ucraina; quanto alla sua origine letteraria, in 28 mesi di conflitto linguisti e storici di seconda serata non hanno mai citato il nome di Ivan Kotliarevs’kyj, scrittore e poeta di Poltava, attivo tra il ‘700 e l’800, il quale pubblicherà in ucraino una parodia dell’Eneide (in italiano: Eneide travestita), drammaturgia da cui si svilupperà il teatro nazionale ucraino. Ma se Kotliarevs’kyj fu il fondatore della lingua letteraria ucraina, si dovrà alla poetica romantica di Taras Ševčenko il formarsi di un’identità narrativa. E siccome all’epoca l’orso aveva sia il pelo che il vizio, nel 1847 la repressione imperiale russa colpì proprio Ševčenko, reo di avere incontrato in Ucraina alcuni membri della confraternita di Cirillo e Metodio, i cui simpatizzanti saranno arrestati dalla Terza Sezione (era il nome della polizia politica imperiale). Ševčenko fu dapprima imprigionato a San Pietroburgo, poi esiliato da soldato semplice nella regione degli Urali. Colpevole di cosa? Di una poesia, Sogno, e di questi versi…
Addio, amata Ucraina,
povero paese natio,
ripeti ai tuoi figli:
la verità è in Dio!
Volo e ammiro e, in un momento,
il cielo rosseggia,
un usignolo da un boschetto
va incontro al sole
Ma questi due nomi non bastano a esaurire la storia concreta della lingua ucraina. A essi, tra il XIX e il XX secolo, si aggiungeranno grandi letterati e attivisti dei diritti umani: Olga Kobylianska, modernista e femminista; Lesia Ukrainka, poetessa e sostenitrice dell’indipendenza culturale ucraina; Mykola Khvyliovyj, tra i fondatori della prosa ucraina post-rivoluzionaria e suicida a Kharkiv nel maggio 1933 in segno di protesta contro le repressioni staliniste; non ultima, Lina Kostenko, 94 anni lo scorso marzo, scrittrice ed esponente della “Generazione dei ’60”, movimento per la difesa della libertà d’espressione in Unione Sovietica in cui militava anche Alla Hors’ka, artista di talento e di coraggio. Pittrice e intellettuale di fama, avversa al realismo socialista, la Hors’ka non lesinò mai il suo impegno civile tanto che, insieme a Vasyl’ Symonenko e a Leonid Tanjuk, mandò in stampa e rese pubbliche le prove degli omicidi di massa di migliaia di “nemici dello stato sovietico” ad opera della famigerata NKVD: costoro “riposavano” nelle fosse comuni dei cimiteri di Lukianivka e Vasyl’kivska, a est di Kiev. Il 28 novembre 1970 Alla Hors’ka sarà assassinata in circostanze poco chiare (e mai chiarite dalla procura). Alle sue esequie, avvenute sotto il ferreo controllo del KGB, fu presente, tra i molti impavidi, anche Vasyl’ Stus, poeta e critico letterario, le cui opere saranno bandite dal regime sovietico e gli costeranno 13 anni di reclusione nel Gulag Perm-36, fino alla morte, avvenuta all’indomani di un suo annunciato sciopero della fame. Riporto un commento del critico Alessandro Achilli: “Per quanto riguarda lo Stus dissidente, il suo impegno per la salvaguardia della lingua e della cultura ucraina e la lotta contro la dittatura sono stati, insieme alla poesia, il cardine degli ultimi vent’anni della sua vita.”
Tutto questo appartiene alla storia e alla lingua ucraina. Ciascuno è libero di non accennarvi e di spendere la propria ignoranza in nome di una propaganda che vorrebbe cancellare l’indipendenza e la libertà del Paese. La memoria collettiva è per ucraini una parabola lunga e dolorosa; essa riguarda i loro avi di allora e i loro figli di oggi. Nel corso di due secoli intere generazioni sono state oppresse dalla Russia imperiale e dall’Unione Sovietica. Da più di trent’anni gli ucraini chiedono al mondo di poter scegliere la loro libertà, di parlare la loro lingua, di leggere le loro poesie, e di rimanere assorti nel loro silenzio, dopo che l’ultimo missile degli invasori sarà caduto invano.