Salta al contenuto principale

Risorgimento al femminile: è perugina l’unica con busto al Gianicolo fra tanti uomini

di Antonella Valoroso
Foto di ©AliasXX00

L’Ottocento è stato un secolo cruciale per il processo di emancipazione femminile e le donne umbre, non diversamente da quanto accadeva nel resto della penisola, furono in questo periodo protagoniste di un cambiamento profondo che ne avrebbe ridefinito il ruolo all’interno della società. Se da un lato rimasero ancorate ai doveri tradizionali di mogli e madri, dall’altro non esitarono ad adottare nuovi modelli comportamentali offrendo supporto affettivo e assistenza ai propri compagni impegnati nella lotta per l’unità nazionale e condividendo attivamente le loro scelte politiche. 

UMBRIA E DONNE/1 LA LUNGA STORIA DEL POTERE AL FEMMINILE INIZIA CON LE ETRUSCHE 

UMBRIA E DONNE/2 LA REGIONE A PIU’ ALTA DENSITA’ DI SANTE, COLTE E “IMPEGNATE”

UMBRIA E DONNE/3 I MILLE VOLTI DEL CULTO DELLA MATERNITà E DELLA MADONNA

UMBRIA E DONNE/4 INIZIò A TODI LA “CACCIA” ALLE STREGHE ITALIANA

UMBRIA E DONNE/5 QUANDO AD ASSISI NEL ‘700 USCì UN PAMPHLET CONTRO GLI UOMINI

Il loro impegno nella causa patriottica del Risorgimento nazionale le rese educatrici di valori civili e morali in grado di trasmettere alle generazioni future l’ideale di una nazione libera e unita. La loro dedizione si tradusse non solo in gesti di solidarietà e assistenza ma anche in scelte politiche coraggiose, spesso in aperta trasgressione rispetto ai codici sociali dell’epoca. 

Esemplare a questo proposito è la figura di Colomba Antonietti Porzi (1826-1849), la cui vita e le cui imprese sembrano uscite dalle pagine di un romanzo d’avventura. 

Nata a Bastia Umbra nel 1826, Antonietti incarna l’ideale della donna risorgimentale che mette la propria vita al servizio della patria. Trasferitasi giovanissima a Foligno con la famiglia – il padre era il responsabile del forno municipale – conosce nel 1844 il conte Luigi Porzi di Imola, discendente di una nobile famiglia di Ancona e cadetto della guarnigione pontificia. L’amore fra i due è immediato così come immediata è anche l’opposizione da parte dalle rispettive famiglie, contrarie a una relazione tra persone di classi sociali così distanti. Ma i due giovani non si arrendono e il 13 dicembre 1846, all’una di notte, si sposano in gran segreto nell’Oratorio della Misericordia di Foligno. Di lì a poco Luigi viene incarcerato a Castel Sant’Angelo per la disobbedienza alle regole militari – si era sposato senza la prescritta autorizzazione dello Stato Pontificio – e Colomba lo segue, ottenendo il permesso di fargli visita ogni giorno.

A Roma la coppia matura sentimenti patriottici avvicinandosi agli ambienti rivoluzionari e quando nel 1848 Luigi si arruola nell’esercito pontificio per combattere nella Prima Guerra d’Indipendenza, Colomba si taglia i ricci capelli neri, ripara una vecchia divisa del marito e indossa l’uniforme da bersagliere per combattere al suo fianco in Lombardia e in Veneto. Dopo la ritirata delle truppe pontificie, i due ritornano a Roma e aderiscono alla Repubblica del 1849.

Colomba si distingue per coraggio nelle battaglie di Palestrina e Velletri, guadagnandosi la stima di Garibaldi che non mancherà di ricordarla nelle sue memorie. Il 13 giugno 1849, mentre è impegnata nelle operazioni di riparazione di una breccia nelle fortificazioni, viene colpita da un colpo di cannone presso la Porta San Pancrazio e muore tra le braccia del marito a soli 23 anni. Le sue ultime parole, secondo la tradizione, furono «Viva l’Italia!». Celebrata come eroina, il suo corpo venne accompagnato in processione dal popolo romano e sepolto con onori militari nella Chiesa di San Carlo ai Catinari. Successivamente sarebbe stato trasferito presso il Mausoleo Ossario del Gianicolo, dove sono accolti i corpi dei caduti nelle battaglie del Risorgimento e dove, tra i tanti busti raffiguranti patrioti italiani e stranieri che durante il Risorgimento hanno combattuto per la causa unitaria, quello di Colomba Antonietti è l’unico dedicato a una donna. 

Circa due mesi dopo la sua morte il poeta e patriota Luigi Mercantini le dedicò l’ode Una madre romana alla sepoltura di Colomba Antonietti Porzio in cui, rievocando le estreme gesta dell’eroina umbra durante la difesa di Roma, scrive: «Non sa quanto una donna in arme possa / Chi lei non vide allora in campo entrar». 

All’indomani dell’unificazione nazionale per la cui causa aveva dato la vita, la sua eroica morte sotto il fuoco dell’artiglieria francese venne riprodotta anche sulla parete lunga della Sala del Consiglio del Palazzo comunale di Foligno dal pittore Mariano Piervittori, dove ancora oggi si può ammirare.

L’impegno in ambito civile e patriottico risulta centrale anche nell’opera di Assunta Pieralli (1807-1865) che si distinse per la sua attività poetica e il suo magistero pedagogico.

Nata a Lippiano, nell’Aretino, in una famiglia agiata, Assunta cresce in un ambiente colto e riceve la sua prima istruzione nella biblioteca di famiglia e grazie a prelati locali, da cui prende lezioni di latino. Fu il proposto della cattedrale di Città di Castello, don Antonio Lignani, a riconoscerne per primo il talento e a introdurla nell’ambiente accademico. Negli anni della maturità avrebbe poi arricchito la propria istruzione grazie ai letterati Antonio Mezzanotte, classicista, e Averardo Montesperelli, poeta ed esule politico, che le insegnò il francese.  

L’ambiente delle accademie si rivela per Pieralli particolarmente stimolante e nel 1828 viene ammessa in Arcadia con il nome di Partenia Idèa. L’anno successivo entrò nei Liberi di Città di Castello e, a seguito del trasferimento a Perugia alla fine degli anni trenta, diventa anche membro dell’Accademia dei Filedoni grazie alla quale ha la possibilità di stabilire un contatto con l’ambiente mondano-culturale frequentato dall’élite cittadina.

Con l’elezione di Pio IX, i Filedoni si orientarono verso posizioni neoguelfe, promuovendo eventi a carattere patriottico ai quali Pieralli partecipa attivamente con componimenti celebrativi, tra cui quello dedicato all’arcivescovo di Perugia, monsignor Gioacchino Pecci. Nel 1848, in occasione della visita di Vincenzo Gioberti a Perugia, prende parte a un evento letterario-musicale, recitando il componimento Voti della città e, tra il 1846 e il 1848, scrive numerose poesie in onore di Pio IX, molte delle quali stampate su fogli volanti.  

Il suo impegno civile trova espressione anche nella collaborazione con il periodico La donna italiana, una pubblicazione militante stampata a Roma che mirava a coinvolgere le donne nel processo risorgimentale. Qui pubblicò tra l’altro due poesie patriottiche: Sulla sacra guerra dell’indipendenza italiana e In morte del barone Pompeo Danzetta di Perugia, caduto nella battaglia di Cornuda del maggio 1848, la prima combattuta in Veneto dai soldati del corpo di spedizione pontificio che, partito da Roma e dalle altre città dello Stato della Chiesa, intervenne a sostegno del movimento insurrezionale e dell’esercito piemontese che a marzo dello stesso anno avevano costretto gli Austriaci ad abbandonare il Lombardo-Veneto.

Per circa diciotto anni fu istitutrice delle figlie di Ginevra Ramirez di Montalvo e Carlo Emanuele II di Sorbello – Altavilla, Ludovica e Cecilia – e, successivamente, della famiglia di Zeffirino Faina, esponente di primo piano del liberalismo perugino. Nel 1859, a seguito dei cruenti fatti del 20 giugno e della successiva repressione pontificia, lasciò Perugia con i Faina per trasferirsi temporaneamente a Firenze. All’indomani dell’unificazione nazionale rientrò prontamente a Perugia e, nel 1861, venne nominata docente di storia e geografia presso la «Scuola normale femminile», di cui diventerà successivamente direttrice, un incarico ricoperto fino alla morte avvenuta il 31 ottobre 1865. La sua produzione poetica, ispirata al classicismo e ai temi risorgimentali, è rimasta in gran parte inedita sebbene alcuni testi siano stati raccolti postumi nel 1890 dall’allieva Celeste Ghirga Rossi. Tra le sue opere più note si ricorda Il lago Trasimeno, un poemetto di circa 1700 versi ambientato tra l’Isola Maggiore e Castiglione del Lago. Il suo nome oggi è legato soprattutto alla scuola superiore che le è stata intitolata: il Liceo Statale Assunta Pieralli.

Alle stragi di Perugia è legata a filo doppio anche la storia di Maria Alessandrina Bonaparte Valentini (1818-1874) la figlia di Luciano Bonaparte, il fratello ‘ribelle’ di Napoleone. Maria, che nel suo diario si definisce «italianissima», coltiva fin da giovane la passione politica e, dopo il matrimonio con il mazziniano Vincenzo Valentini e la caduta della Repubblica Romana, alla fine del 1849,  si trasferisce a Perugia con i suoi quattro figli mentre il marito viene esiliato a Firenze. La sua dimora – il palazzo nel rione di Porta Sole che ospita attualmente la Biblioteca Augusta – diventa così il centro di raccordo dei perugini liberali e il suo salotto viene frequentato da Francesco Guardabassi, Nicola Danzetta, Ariodante Fabretti, Zeffirino Faina. È in quel salotto che viene messa a punto la cospirazione che, il 14 giugno del 1859, porta alla cacciata degli amministratori pontifici e alla formazione di un governo provvisorio che chiede l’annessione al Regno di Sardegna. Ed è sempre in quel salotto che si organizza la difesa eroica e disperata dei perugini che il 20 giugno vengono attaccati dalle truppe pontificie che seminarono terrore e morte tra le strade della città trucidando cittadini e cittadine inermi. Maria Bonaparte Valentini – o come dicevano i perugini «la Napoleona» – si adoperò per denunciare le violenze brutali di cui era stata testimone e le descrisse in resoconti indignati perché non se ne perdesse la memoria.

A più di un secolo e mezzo di distanza, è doveroso ricordare almeno i nomi delle donne «trucidate inermi» nel giorno in cui Perugia si guadagnò la medaglia di «città benemerita del Risorgimento nazionale» e il diritto a diventare centro politico della regione: Francesca Morini, Candida e Carolina Passerini, Irene Polidori. E anche quelli delle donne che, pur ferite, sopravvissero: Caterina Bagiavecchia, Giulia Piglia, Luisa Bachini Rossi, Amalia Tancioni. 

Tutti i loro nomi, insieme a quelli degli uomini che caddero o furono feriti in quel fatale 20 giugno 1859, sono incisi nel marmo della lapide apposta a Porta San Pietro trent’anni dopo la strage, monito e testimonianza del prezzo della libertà.